Se osserviamo la locandina originale di L’inferno di cristallo, vedremo il nome di Paul Newman sopra quello di Steve McQueen, ma l’immagine di McQueen a sinistra di quella di Newman.
Ciò non avvenne per caso: nell’unico film che vide le due più grandi star degli anni ’70 co-protagonisti, il layout dei titoli di testa fu l’unico modo per garantire la parità di conti. Ma i due attori condivisero altro oltre al lavoro e alla celebrità: entrambi si distinsero come piloti di auto da corsa.
Se pensiamo a un attore di Hollywood ossessionato dai motori, la mente non può che correre a Steve McQueen. McQueen fu una leggenda delle auto e delle moto sportive, un uomo così appassionato alle corse che non solo girò un film sulla 24 Ore di Le Mans ma gareggiò anche a altissimi livelli.
Basti ricordare che alla 12 Ore di Sebring del 1970 (un appuntamento che, insieme a Le Mans e alla 24 Ore di Daytona compone la santissima trinità corse automobilistiche), non riuscì a vincere solo perché Ferrari impiegò il talento Mario Andretti e perché… McQueen guidava con un piede ingessato (immaginatevi le difficoltà al momento della staffetta tra i piloti). Una storia così incredibile che avrebbero dovuto farci un film.
Per dovere di cronaca, va aggiunto qualche altro dettaglio.
Il compagno di squadra di McQueen era Peter Revson, un professionista a tempo pieno assunto da McQueen come copilota.
Come disse in seguito Andretti: “Stimavo e rispettavo Peter Revson, e in realtà stavo male per lui. Se qualcuno meritava di vincere quella gara, era proprio Revson. Ma Steve McQueen avrebbe ricevuto ingiustamente tutti i riconoscimenti anche se… non era neanche lontanamente paragonabile a Peter.”
“McQueen corse il numero di giri di pista minimo per qualificarsi come partecipante, ma Revson fece la parte del leone”. La verità è dunque che la Porsche di McQueen non sfiorò la vittoria a Sebring grazie alla bravura dell’attore-pilota, ma perse proprio perché al volante c’era McQueen, anche se per un numero di giri di pista ridotto. Se Revson fosse stato affiancato da qualcuno con le sue capacità tecniche, Andretti non ce l’avrebbe mai fatta.
Che cosa vogliamo invece ricordare di Paul Newman? È vero, il co-protagonista di McQueen in L’inferno di cristallo non corse mai con un arto ingessato ma sperimentò un deficit molto più grave: non iniziò a gareggiare seriamente prima dei 50 anni, la stessa età che aveva McQueen quando morì.
Newman cominciò a correre negli anni Settanta e, anche se lui stesso ammetteva di non essere dotato di talento naturale, questo poteva in realtà non importare troppo. È stato a lungo detto che Graham Hill abbia vinto i suoi due titoli mondiali di Formula 1 grazie alla grinta e alla disciplina, più che per un talento innato.
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È importante sottolineare che Newman fu un vero appassionato e lavorò duramente per dominare le auto da corsa. E iniziò a vincere. Vinse gare delle serie TransAm e gare organizzate dalla SCCA, lo Sports Car Club of America.
Paul Newman visse sempre la sua passione sottotono, fino a quando espresse il desiderio di guidare a Le Mans, un evento su cui McQueen – come tutti ricordiamo – aveva girato un film, senza mai però cimentarsi nella gara vera. Era il 1979 e, in coppia con il proprietario del team Dick Barbour e la star della Formula 1 Rolf Stommelen , Newman portò una Porsche al traguardo.
Non si trattava però della Porsche 908 che McQueen aveva guidato a Sebring, ma di una 935, una vettura con più del doppio della potenza, erogata per giunta con un calcio feroce nella schiena da un motore turbocompresso e con una meritata reputazione di castigatore di qualunque errore. E a Le Mans quell’anno pioveva.
Come McQueen, ma in circostanze molto più difficili, Newman non sbagliò un colpo. Non fu veloce come i suoi compagni di squadra ma fece la sua parte conducendo l’auto e la squadra sul secondo gradino del podio. E invece di prendersi tutto il merito, si limitò a dire: “Non ho guidato molto bene oggi”.
Inorridito dalla troppa attenzione che gli fu riservata in Francia – ammise successivamente di essersi sentito come carne da macello – Newman non corse mai più fuori dagli Stati Uniti. Ma in casa gareggiò ancora e ancora, arrivando secondo quello stesso anno a Watkins Glen e dimostrando così che il podio di Le Mans non era frutto di un mero colpo di fortuna.
All’età di 70 anni, un’età in cui di solito ci si ritira a vita più tranquilla, Paul Newman conquistò un podio e una vittoria di classe alla 24 Ore di Daytona, e a 80 anni – sì, 80 – corse di nuovo lì, in squadra con il pilota di Formula 1 Sébastien Bourdais e con la star dell’IndyCar Cristiano da Matta.
Completò la sua ultima gara a settembre 2007, meno di un anno prima della sua morte. E la vinse.
Paul Newman fondò anche la scuderia Newman Haas Racing e la trasformò in uno delle squadre più forti della storia dell’IndyCar, vincendo più di 100 gare e otto campionati.
Forse McQueen era un pilota più completo: più istintivo e molto dotato con le moto da cross e nel deserto. Tutto ciò, però, rende i risultati di Newman ancora più ammirevoli perché lavorò tanto sulla tecnica quanto sulla tenacia. Dopo Sebring, McQueen non gareggiò in nessuna altra gara importante, perlomeno in auto.
Sappiamo tutti che la fiamma di Steve McQueen cedette – troppo presto – al vento delle sue ossessioni e di una vita spericolata. Paul Newman visse più a lungo; fu costante, saggio e determinato. Forse, nonostante la grandezza, non venne iconizzato tanto quanto McQueen ma, sullo schermo e nei circuiti, fu davvero un fuoriclasse.
Ispirazione: The Telegraph
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