Un ragazzaccio e il suo harem

Franco Molon e le moto da regolarità, le vecchie fuoristrada e gli aneddoti di vita

di Simone Ariot.

Alcuni dicono che le cose sono solo cose. Che non hanno cuore. Che ce ne si può dimenticare. Per altri, invece, le cose sono il prodotto dell’anima. Riflettono la persona. Comunicano qualcosa di sé. Franco Molon fa sicuramente parte di questa seconda schiera. Ballerino classico, motociclista, designer, volontario della Croce Verde, collezionista di mezzi a due e quattro ruote, esploratore del mondo, musicofilo. In ordine sparso, senza alcuna gerarchia,  Franco è questo. Un uomo che ha vissuto in California quando era la terra della libertà, da progettista delle bici Specialized, in quegli anni 90’ fatti di colori fluo e di Nirvana incazzati. E che poi è tornato a casa, a Vicenza, ma con un piede sempre mezzo fuori. In Africa in primis, dove ha riscoperto una parte di sé. Una vita ora racchiusa nella casa-laboratorio, una sorta di parco giochi che ogni uomo (e qualche donna) sogna ogni giorno. In salotto trovano spazio vecchie Husqvarna e Swm, poster autografati da Brigitte Bardot, chitarre acustiche di liuteria e l’indiscussa regina a 6 corde del rock, una Fender Stratocaster. Più defilato il frigo e la dispensa, utili a nutrire il corpo. Ma per nutrire l’anima servono pezzi di ferro e legno, spigoli vivi e grasso oleoso. E questo parco giochi è qui, a poche centinaia di metri da una delle meraviglie architettoniche dell’umanità (forse La Meraviglia: la Rotonda del Palladio) dove moto, macchine e biciclette sono le protagoniste. “Sono le moto di quando avevo 18 anni. Le Swm da regolarità che si vedevano sui colli quando i piloti nostrani si allenavano, o le Husqvarna che ci facevano sognare credendoci Steve McQueen”. Il mondo degli appassionati funziona un po’ così. Si comincia a raccattare ferri vecchi solo dopo averli usati per molto tempo. Ci si guarda indietro, si vede il tempo che è passato, e lo si vuole bloccare, perché nelle cose il tempo non passa, a differenza dei corpi umani. È un elisir di giovinezza, ma anche un modo per guardarsi dentro. Nelle ore passate e montare e smontare si sta con se stessi, ci si confronta con i propri scheletri nascosti, con le vecchie paure diventate ormai innocue ricorrenze. Ma si continua a sognare. Magari le moto, le macchine, le bici o altre diavolerie con le ruote che rimangono più ferme che in movimento, più spente che accese, ma stanno lì, a dirci che è ancora tutto possibile, cercando i pezzi di quando si era giovani e non ce li si poteva permettere. Sarà per questo che, tra i collezionisti, non troviamo chi a 18 anni era fighetto e aveva tutto. I collezionisti, i “malati”, colmano un vuoto dell’epoca. I quarantenni di oggi ricercano gli scooterini degli anni 2000, i cinquantenni le varie Mito e Futura, i sessantenni le regolarità di fine anni 70 e le mono da enduro dei primi anni 80’, e così via. Franco, nel suo mondo dei sogni, parla con Honda XL 600 e XLV 750, con Toyota Land Cruiser BJ42 e Harley Davidson Softail Springer del Centenario, con Swm RSGS e Husky 250. In particolare, negli ultimi anni, parla molto con l’ala dorata giapponese. “HRC, bianco rosso blu. Quando vedo questi colori mi illumino”. Mamma Honda è sempre mamma Honda, e chi vede solo freddezza e tecnologia forse non ne conosce la storia e le imprese sul campo, dalla Parigi Dakar (che Franco ha fatto, come assistente e amico, a seguito dell’immenso Gaston Rahier quando correva con Suzuki), alle imprese con l’Husky 510 in Senegal, e molte altre. “Quando si osserva un’Honda si impara sempre qualcosa”, sussurra mentre ci mostra una delle sue tre XLV 750, una moto non troppo fortunata sul versante vendite ma di innegabile fascino. “Guidarla è uno spasso, non c’è Bmw G/S che regga. Fluida ed equilibrata, il cardano ti accompagna e non ha il classico effetto del monolever tedesco”. Ma Franco queste creature non si limita a comprarle, accenderle, guidarle. Franco le smonta, le modifica, le riporta originali se erano taroccate, le personalizza se erano originali. Entra in fusione con loro, ed è capace di separarsene, per affrontare nuove sfide meccaniche o stilistiche. Come quella che sta vivendo con una Honda XL 600 che diventerà una special 630. Alleggerita, potenziata, rialzata. Una moto che farà sognare i rally africani solo a guardarla. Non c’è fretta: una trasformazione può durare giorni come anni, può interrompersi e rimanere lì, come in un cantiere, per diverse stagioni, e poi essere ripresa in mano. Tornio, lima, cavi, trasformatori. Gli attrezzi del mestiere non mancano, la voglia di restare un ragazzo anche. E se ci chiediamo cosa vediamo in un ammasso di tubi, viti, ferro e cavi elettrici, la risposta può essere una, nessuna o centomila. Vediamo la libertà di un viaggio, l’evasione dal quotidiano, la velocità di una fuga ma anche la lentezza del perdersi dove nessuno può disturbarci. Ma, in caso ci disturbassero, possiamo sempre andarcene velocemente, in sella ad una delle nostre moto!

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