Guido Borghin. L’accumulatore poetico

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di Pier Francesco Verlato

Guido Borghin fondò la Gabor negli anni ’70 non per particolari aspirazioni commerciali ma per dare un contributo personalissimo al comparto motociclistico e alla disciplina che più amava: la regolarità. Oggi, la sua collezione conta quasi cinquecento moto.

Un signore con i baffi dall’età indecifrabile il siòr Borghin, Guido per gli amici, mi apre il cancello di una grande casa quasi in centro al paese. Sono a Dueville, provincia di Vicenza, il feudo dell’arrangiarsi e del se-non-lo-trovo, lo-fasso-mi in cui esistono tanti signori e nessun servo. Un cane basso e tozzo mi accompagna lungo il vialetto di ingresso rivendicando innocuo il suo diritto di proprietà a suon di un abbaiare roco e indisponente. Moto, moto dappertutto, fin dal giardino e dalla rimessa al pian terreno: un’Harley Davidson “perché vado in America per tre settimane” e un paio di enduro sul cavalletto centrale slanciate verso l’alto e inarrivabili ai più.

Mi accoglie in una grande cucina in cui campeggia un enorme tavolo ornato di riviste motociclistiche d’ispirazione vintage: MotoCross d’Epoca, Legend Bike, Motociclismo d’Epoca. Segnalibri apposti scientificamente dove le penne dei giornalisti scrivono di lui, della sua collezione, dei suoi trascorsi di pilota e della sua creatura, la Gabor, casa motociclistica che fondò a metà degli anni ’70 non per aspirazioni imprenditoriali o commerciali (le sue aziende in altri settori occupavano già decine di persone) ma per dare un contributo indimenticabile e personalissimo a ciò che fin da piccolo gli aveva rapito il cuore: la motocicletta fuoristrada. Il fasso-mi di Borghin fu il risultato di un’infatuazione fortissima per il mondo delle ruote artigliate eppur scivolose, per le mascherine incrostate del fango umido di quello davanti, per il dolore acre agli avambracci e per l’onnipresente odore dell’olio di ricino. Fu una storia d’amore quella su cui Guido volle apporre la sua firma. E gli riuscì in grande stile: Gabor, che esistette per cinque anni uscendo definitivamente di scena nella stagione ’78-’79, rappresentò il non plus ultra in termini di componentistica e qualità degli assemblaggi e le moto furono da subito considerate estremamente competitive. Un difetto alla biella, frutto di un disegno tecnico sbagliato da parte di un fornitore, fu scoperto troppo tardi per consentire di sradicare la nomea di moto inaffidabile che si era creata a causa dei troppi grippaggi in gara e Borghin fu costretto a chiudere l’azienda “senza lasciare debiti e riassorbendo il personale nelle altre mie attività”, come coscienziosamente tiene a precisare.

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La visita del feudo Borghin ha inizio dai piani superiori dove stanze su stanze si susseguono cariche di riviste in abbonamenti decennali, trofei sudati, libri fotografici e libri tecnici, pettorali sgualciti dai guadi e dalla pioggia, magliette e polo dei motoclub. Ma è quando inforco la scala a chiocciola che conduce al garage (un hangar gigantesco, a onor del vero) che i polmoni cessano di respirare, il cuore di battere e le palpebre di socchiudersi a inumidire gli occhi. Anzi, gli occhi li devo strofinare e sgranare meglio per capire se tutto ciò che mi si para davanti all’accendersi dei neon sia reale o se sia piuttosto il frutto di un’immaginazione troppo vivida, come se la mia passione viscerale per le moto vintage si nutrisse per un momento delle sostanze psicoattive dei rave, e questo cocktail intergenerazionale e multiculturale mi causasse le allucinazioni. “E sono solo metà, le altre sono in un capannone qui vicino”. Solo la metà… Mi lancio armato di macchina fotografica in mezzo a quella prateria di metallo come un foxhound sguinzagliato per la caccia alla volpe. Scavalco pedane, mi acquatto sotto manopole di manubri diligentemente ripiegati a sinistra il tanto che ci consenta di fotografare quel particolare così unico, così introvabile, perché unica è la moto alla quale il particolare appartiene. È una ricerca senza tregua di quel pezzo o di quell’altro perché, signori, lì dentro c’è la storia del motociclismo fuoristrada, della regolarità anni ’70, delle sigarette fumate dai piloti sulla linea di partenza, dei salti e dei guadi con il solo casco mal allacciato, senza le pettorine alla moda degli ultimi vent’anni. Una Metisse che avrebbe potuto appartenere a Steve McQueen riposa serena accanto a una rarissima Guzzi Aldo Mirimin, un’impeccabile Ducati Scrambler gialla sfida a colpi di pennello il giallo scuro dell’arcobaleno KTM, e avanti così, con i restaurati, i conservati e le motociclette-campione. L’altro capannone, raggiunto a cavallo di una pizza in una bella serata estiva condita di racconti d’Africa e di International Six Days di Sardegna, riserva sorprese ancora più speciali, ché se mi mettessi a elencarle tutte perderei il focus sul Borghin-personaggio per concentrarmi sulla sua collezione. Ma è l’uomo, non le moto il centro della storia. Le moto sono solo oggetti che il siòr Borghin ama alla follia perché grazie ad esse lascerà una firma nel mondo, soddisfacendo la sua ambiziosa e romantica aspirazione. Ma i romantici, in questo caso, sono anche dei gran lavoratori, perché il fasso-mi è olio di gomito che neanche riesco a immaginarlo, è perderci gli occhi sul banco di lavoro tutta la notte, tantissime notti, fino alla mattina presto.

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Photo credits: Rust and Glory

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