Perché vado in moto (e non scenderò mai)

– di Pier Francesco Verlato –

“Il giovane motociclista sceglie una destinazione; quello di lunga data, solo la direzione”.
Ampiamente celebrata dalla cinematografia hippy, la Libertà associata alla moto è la prima vera ragione per indossare gli stivali e ingranare la marcia, qualunque sia la meta. Ci sentiamo un po’ cowboy, in sella ai nostri cavalli nel mezzo del nulla, alla ricerca di un riparo per la notte. Anche se, più che agli eleganti Appaloosa dei western Americani, il quintale e rotti di ferraglia che ci porta in giro può somigliare a un disco volante, a una poltrona, a un siluro, secondo la creatività del progettista e la fantasia del proprietario.

La mia, con i suoi 260 chili di mole, somiglia a un trattore a due ruote pronto ad aggredire i terreni più impervi. Ed è proprio così: con la moto percorro strade strette e sconosciute – dalle quali in auto mi terrei il più lontano possibile – fermando il motore solo per mangiare, dormire e osservare. Soffro per 800 chilometri filati ma il sollievo di non dover rispondere al cellulare mi dona una quiete immensa, attribuendomi un ruolo da protagonista nel definire l’armonia di un luogo: “Ci sono anch’io sulla mia moto e sono perfetto qui, adesso!”, mentre con un filo di gas passeggio sulle Ramblas di Barcellona o attraverso la regione dei laghi Scozzesi.

Le moto, quelle serie, sono alte, come dei terrazzi dai quali osservare il mare, i colli, i tetti e i giardini. I profumi investono il motociclista fino quasi a stordirlo: lo iodio sollevato dai flutti, l’aria fresca della montagna non appartengono più alla spiaggia affollata e al sentiero estivo ma diventano gli ingredienti fondamentali di un’esperienza intensa e totalizzante.

E se l’automobile è comoda, sicura e spaziosa, la moto porta con sé il fascino dell’evasione, del fuorilegge che desta ammirazione ovunque vada: una pacca sulla spalla, un “se potessi verrei con te” non mi sono mai stati risparmiati una volta sfilato il casco in un luogo affollato. Forse le persone hanno ragione a invidiare i motociclisti, a desiderare di fare parte della loro tribù. Non è da tutti percorrere migliaia di chilometri, con qualsiasi condizione atmosferica su di un mezzo che “non sta in piedi da solo” e che espone i viaggiatori al rischio di contatti troppo ravvicinati con asfalto e guard-rail.

Tanti pensano: “Quanto mi piacerebbe, lo farei subito se non avessi figli piccoli” ma, in realtà, sanno anche loro che non saranno mai pronti ad avventurarsi su due ruote in una terra sconosciuta. E non hanno idea di che cosa si perdono: il piacere di un pasto in una piazzetta scoperta per caso, provando a immaginare che cosa si potrebbe incontrare una volta ripresa la strada, la gioia di piantare la tenda bevendo un bicchiere di vino e chiacchierando con i compagni di viaggio, la soddisfazione di guardare il contachilometri e di confidare a se stessi: “Se ce l’ho fatta fino a qui, posso fare il giro del mondo”.
In moto, la destinazione è solo il pretesto per intraprendere il viaggio. I colori, le persone e le emozioni trasformano le migliaia di chilometri, la pioggia e la stanchezza in un desiderio irrefrenabile di salire in sella al più presto per una nuova, grandiosa avventura.

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Photo credits: West America

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