Maledetta San Francisco, m’hai catturato l’anima e la tieni in ostaggio su quell’isola da film.
Mi hai tolto il respiro, con le tue case aggrappate a improbabili pendii, pronte a rotolare in giù al primo starnuto della faglia. Nei loro interni poveri di lussi e caldi di sensazioni, tazze colorate e quadri di David Park, mobili di cent’anni e porte al compensato.
I tuoi ponti chilometrici mi trafiggono il cuore tra mille sbarre d’acciaio secolare: quello rosso e fotografico che ti collega a un’altra cittadina dal nome di conquista, Sausalito, ai suoi pescherecci arrugginiti e alle comunità hippie sulle houseboat; quello bianco e operoso che punta dritto alla Berkeley dei comunisti e dei vietcong, alla Oakland dei coltelli e degli Hell’s Angels.
Mi hai stordito, fetida città dei sogni, con quel fumo verde nei negozi di Haight Ashbury, roba buona per così dire, pace e gridolini di ragazze, amore e amplificatori da marciapiede.
Mi hai incantato con la musica migliore del pianeta, ché anche London Calling tiene il passo zoppicando a The Sound of San Francisco, agli stramaledetti Aeroplani di Jefferson, alla tossica Janis e ai versi intossicati di Joan. Le tue melodie perseverano, ininterrotte come orologi perpetui, a scandire giornate di nebbie lunari e di cieli desertici, di note elettriche storpiate dall’erba e di lente voci all’LSD.
Cammino lentamente tra il vittoriano delle case e il woodstockiano degli abiti, gli occhi un po’ su e un po’ in basso, cibo popolar-vegano nelle mani e le orecchie deliziate dalle strade degli artisti. Sono parte di te: un batterio del tuo organismo complesso e perfetto. Permettimi allora di lasciare un po’ di gomma sui tuoi camminamenti, sui tuoi marciapiedi-dormitorio perché solo tu ci fai capire – Grand Hotel dei Poveri – quanto siamo immensamente fortunati, noi e i nostri capricci di lavoro.
Dammi lenti tecnologiche per decifrare gli imprenditori di internet, così da scoprire che cosa li renda unici con la loro presunta genialità e il fruscio a sei zeri dei capitalisti di ventura. Regalami una serata con loro, in discoteca a Marina e in una penthouse a Castro: alcolici, pasticche e visioni milionarie.
Fammi ascoltare il norbiccese, il calabro-newyorkese degli italiani di frontiera a North Beach, la lingua franca dei mafiosi e dei poeti. Perché tu, San Francisco, m’hai fottuto gli occhi con quegl’inutili versi di Ginsberg, con le strade di Kerouac, con il Big-Sur-Terra-Promessa e il futuro affilato di Ferlinghetti: parole che fanno a pugni con le famigliole U.S.A anni ’50, con le cravatte dei servitori del potere, con il lavoro di otto ore e con il mito del primo milione guadagnato.
City Lights Bookstore, recita la meravigliosa vetrofania che connota la libreria più antagonista d’America, luogo di culto di autori troppo colti e cosmopoliti per piegarsi allo stile di vita al marshmallow dei datori di lavoro del ventesimo secolo.
Si fottano Walmart, Citi e American Express, annientatori d’emozioni in cambio di potere d’acquisto, pacificatori di famiglie dove il consumismo ha tamponato il naturale scorrere dei fluidi corporei. Si fotta Trump, servo dei texani del petrolio e delle vacche al macello, punto più basso della storia delle storie dell’uomo. Ce lo urla Ferlinghetti con parole al vetriolo e io ti prego, città di mare e di conquiste, consentimi d’incontrarlo questo centenario del futuro, di assaggiare il caffè della sua piccola casa di rose e ortensie, di libri venduti a milioni di persone e di pochi soldi intascati.
E se mi troverò ancora sulle tue strade, serpente incantatore di cemento e di ferro, permettimi di risalire la china, dai teatri di Mission alla sommità degli Heights, lungo le curve della tua schiena a scaglie tra i vapori del crack da marciapiede, e fammi rotolare giù in una grande, setosa bandiera arcobaleno tra chi le parole di Harvey Milk non le ha mai dimenticate ma si strugge perché hanno esaurito – troppo presto – il loro effetto sconquassatore di coscienze.
Prendimi tra le tue braccia, città dai venti bagnati di genio e di contestazione, inumidisci le mie labbra del tuo invisibile elisir e cullami dolcemente solo un po’, perché tra le mille dipendenze a cui posso soccombere, quella alla tua bellezza non mi abbandonerà più.
Pier Francesco Verlato, ottobre 2018
Commenta con Facebook