1908: la corsa in auto intorno al mondo da New York a Parigi

Un superstite della più lunga e più folle gara automobilistica del mondo descrive la sua incredibile avventura

– di George Schuster (articolo tratto da Selezione del Reader’s Digest, marzo 1963)

Nel lontano 1908 l’idea d’una corsa automobilistica da New York a Parigi era fantastica quanto i voli spaziali di oggi. Le strade pavimentate erano quasi sconosciute, le carte stradali non esistevano, gli pneumatici erano molto vulnerabili, le automobili poco robuste. Tuttavia sei vetture e una ventina d’uomini presero parte alla gara. Io ero uno dei concorrenti e oggi, dopo più di 50 anni, ricordo quasi ogni particolare di quella pazzesca avventura.

Allora avevo 35 anni e guadagnavo vo 25 dollari la settimana come collaudatore delle auto Thomas Flyer per conto della E. R. Thomas Motor Car. Co. di Buffalo, nello stato di New York.

La corsa era organizzata dal giornale parigino Le Matin (che un anno prima aveva indetto una corsa Pechino-Parigi vinta dal principe Borghese e da Luigi Barzini) e dal Times di New York. I premi consistevano in alcune coppe offerte da circoli automobilistici, in modeste somme di denaro e nell’occasione di dimostrare quel che un’auto potesse fare.

I concorrenti partiti da New York si sarebbero diretti a San Francisco. Qui le auto sarebbero state imbarcate per l’Alaska, dove avrebbero continuato il viaggio sul fiume Yukon ghiacciato, attraverso lo stretto di Bering, e quindi attraverso la Siberia e l’Europa fino a Parigi. Per esser certi di trovare lo Yukon ghiacciato, la corsa doveva cominciare d’inverno.

Fu Montague Roberts, pilota venticinquenne dell’agenzia Thomas di New York, a proporre d’iscriverci alla corsa. Egli avrebbe guidato l’auto e io avrei provveduto a « farla andare avanti. » Non sarebbe, state facile. La nostra Thomas Flyer prezzo 4000 dollari – era una quattro cilindri di 60 cavalli che nelle prove su strada percorreva 1500 metri il minuto. Ma con un litro di benzina percorreva soltanto quattro chilometri e invece dell’albero di trasmissione, ormai usato da molti concorrenti, aveva una catena che causava fastidi. Inoltre, nessuna automobile aveva mai attraversato d’inverno il continente americano.
Edwin Ross Thomas, titolare della nostra ditta, non voleva che ci iscrivessimo alla corsa. Ma l’l febbraio, il giorno prima della partenza, mi telefonò il nostro direttore commerciale. « Trovati a New York domattina » disse. « Parteciperai alla corsa. Ti raddoppio lo stipendio, portandoti a 50 dollari la settimana. »
Il giorno dopo era festivo e una folla di 250.000 persone gremiva Times Square. La nostra era la sola macchina americana. Avevamo contro di noi una Motobloc francese, una De Dion francese, una Züst italiana, una Protos tedesca e una Sizaire-Naudin francese a un cilindro (guidata da un veterano della Pechino-Parigi). La nostra Thomas Flyer grigia, modello 1907, era scoperta e senza parabrezza, ma aveva un’armatura di ferro su cui si poteva tendere un telone. Tutte le vetture avevano una scorta di benzina, di badili, di catene e di corde.
Alle 11,15 il presidente dell’Automobile Club d’America sparò un colpo con una pistola placcata d’oro e ci avviammo per Broadway e sulla vecchia carrozzabile per Albany.
Saremmo dovuti arrivare ad Albany quel giorno stesso, ma una dopo l’altra, tutte le vetture rimasero bloccate nella neve semisciolta. (« Vincerò io » , disse un Francese, « sono un ottimo spalatore. »)


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L’auto più piccola, la Sizaire-Naudin a un cilindro, ruppe l’assale posteriore dopo due ore e siccome non c’erano pezzi di ricambio, si ritirò dalla corsa. Il nostro motore poco dopo andava a tre cilindri, ma quella sera riuscimmo ad arrivare primi a Hudson, 187 chilometri da New York, e smerigliai le valvole del cilindro difettoso.

Il giorno dopo, mentre passavamo da Schenectacly, in nostro onore fu suonata la sirena dei pompieri. Qui però la neve alta fino al sommo delle staccionate bloccava la strada, perciò l’abbandonammo per seguire la ventosa pista lungo il canale Erie. La De Dion e la Züst s’avvicendarono con noi a fare da battistrada. Ogni volta che incappavamo in un alto cumulo di neve, dovevo infilarmi sotto la vettura con il martinetto e raddrizzare le barre che tenevano regolata la nostra catena di trasmissione.

Arrivammo a Fonda alle 22, dopo aver percorso nella giornata 95 chilometri. Svuotai il radiatore per evitare che l’acqua gelasse, compito a cui provvedevo tutte le sere. La nebbia ci fermò per un certo tempo sulla strada per Utica, ma poco dopo passammo per Syracuse e Auburn… finché dovemmo esser tratti dal fango da un tiro di quattro cavalli.

Il giorno dopo un improvviso abbassamento della temperatura ghiacciò le strade fangose e quindi procedemmo velocemente, passando da Rochester, fino a Buffalo. Qui, alla fabbrica della Thomas, i meccanici lavorarono tutta la notte per sostituire il cilindro difettoso e per mettere al posto dell’assale anteriore curvo, che strusciava sulla neve, un assale rettilineo. Richiesi al signor Thomas un’altra persona e lui ci dette George Miller, uno dei collaudatori su strada.

Da allora la gara divenne più combattuta. La Thomas, la De Dion e la Züst avrebbero dovuto sostare un giorno a Buffalo per un pranzo offerto dall’Automobile Club, ma la Züst ripartì. Il pranzo fu disdettato e tutti noi ci mettemmo a inseguire gli Italiani.

A causa d’una tormenta, ci vollero otto giorni per arrivare a Chicago e Roberts, il nostro guidatore, perse nove chili di peso. Ora il fango prendeva il posto della neve man mano che procedevamo verso ovest, seguendo un percorso che attraversava l’Illinois, lo Iowa e il Nebraska. In molte cittadine le scuole fecero vacanza in modo che i ragazzi potessero assistere al nostro passaggio. Un giornale ci descrisse come « uomini dall’aria fiera e dallo sguardo folle che viaggiano senza dormire e senza mangiare.

Quando 1’8 marzo entrammo a Cheyenne, nel Wyoming, ci venne incontro una scorta di cowboys e cowgirls con tanto di banda. Qui Roberts, che aveva un contratto per partecipare a varie corse negli Stati Uniti orientali, cedé il volante a Linn Mathewson, agente della Thomas a Denver. Mi fu consigliato di procurarmi una pistola. « Territorio deserto da qui in avanti » mi spiegarono.

Tra freddo intenso e venti impetuosi, ci spingemmo su per tortuose strade di montagna con la neve tanto alta, dopo aver valicato lo Spartiacque Continentale, che le ruote, anche se provviste di catene, spesso giravano a vuoto. Infine Mathewson chiese alla Union Pacific il permesso di procedere sulle sue rotaie e la ferrovia acconsenti. Provvisti di un’autorizzazione che ci classificava come « treno speciale » corremmo sballottando verso ovest, con le ruote di destra sulle estremità esterne delle traversine, il che ci procurava innumerevoli scoppi di gomme.

La folla ci acclamava e ci lanciava fiori; dai marciapiedi, la gente seduta ai tavolini dei caffè sollevava i bicchieri gridando « Vive la voiture américaine! »

A Ogden, nell’Utah, smontammo la carrozzeria dal telaio e per la terza volta cambiammo la scatola del cambio che si era incrinata. Inoltre, Harold Brinker, un guidatore ventunenne di San Francisco, sostituì Mathewson al volante. La ferrovia Southern Pacific non ci permise di utilizzare i suoi binari per timore che la vettura si sfasciasse e bloccasse la linea; perciò, dato che non esistevano carte stradali, prendemmo al nostro servizio guide locali e proseguimmo, senza aver la minima idea di quel che fosse avvenuto alle altre automobili.

Nel Nevada un giorno verso sera avemmo guai seri quando tentammo di risalire la ripida sponda di un fiume in secca. Per lo sforzo, spezzammo sei denti del pignone e spaccammo la scatola del differenziale. Noleggiai un cavallo in un ranch vicino e mi diressi a Tonopah, 120 chilometri piû avanti. Dopo cinque ore arrivai a una casupola e bussai alla porta.

« Non cercate d’entrare » mi gridò una donna dall’interno. « Nel recinto troverete fieno per il cavallo e un capanno per voi. » Detti da mangiare al cavallo e mi stesi a terra.

Quando mi svegliai la mattina dopo trovai che tre uomini ci erano venuti incontro in auto da Tonopah. Con pezzi presi in prestito da una Thomas del medico locale, riparammo la nostra macchina e attraversammo di notte la Vallata della Morte, proseguendo su un tratto sabbioso fino a Stovepipe Wells. Dopo una sosta di tre ore a Ballarat, proseguimmo per Mojave e Tehachapi per arrivare infine a Bakersfield. Questa corsa di 615 chilometri in un giorno, fu la nostra tappa migliore da quando avevamo lasciato New York.


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Il giorno dopo, 24 marzo, arrivammo a San Francisco. Ci erano voluti 41 giorni, otto ore e 15 minuti per attraversare il continente. La Motobloc aveva rinunziato alla corsa nell’Iowa; la Züst era nell’Utah, la De Dion e la Protos nel Wyoming.

Nell’intento di preparare la macchina per l’Alaska e la Siberia, sostituimmo la scatola del cambio la quarta volta, aggiungemmo un supporto al telaio e cambiammo le ruote, le molle e la trasmissione. Ci dirigemmo a nord verso Seattle dove mia moglie mi mandò un fucile e alcune munizioni, con una richiesta di mio figlio di portargli « una scimmia viva. »

Imbarcatici a Seattle, mentre eravamo in mare studiai un promemoria di 20 pagine sulle possibilità di viaggiare in auto d’inverno in Alaska. Non ce n’erano, ma l’informatore riteneva che le piste dei cani da slitta potessero essere ampliate a sufficienza.

Sbarcammo a Valdez, in Alaska, l’8 aprile. Gli abitanti ci accolsero con una sfilata e un banchetto, ma la neve era cosi alta che non potemmo far muovere la Thomas dalla banchina d’approdo. Il giorno dopo arrivò un telegramma : « Tornate a Seattle. Percorso cambiato. Procedere da Seattle a Vladivostok. »

Di ritorno a Seattle il 16 aprile, sapemmo che la Züst e la De Dion erano già partite in piroscafo per il Giappone. La Protos, che aveva subito guasti irreparabili nell’Utah ed era stata spedita per ferrovia a Seattle, fu imbarcata il 19 aprile per Vladivostok. La Thomas e i suoi occupanti, che ora erano George Miller, Hans Henry Hansen (un esploratore norvegese dell’Artide passato dalla De Dion a noi) e io, si imbarcarono due giorni dopo.

Arrivati in Giappone ottenemmo il visto russo a Kyoto e di qui, attraverso 500 chilometri di strade strette e tortuose, fiancheggiate da alberi e cespugli in piena fioritura, arrivammo a Tsuruga, sul Mar del Giappone. Il 17 maggio c’imbarcammo per Vladivostok.

Le altre tre auto erano già a Vladivostok quando noi vi arrivammo, ma la De Dion era stata ritirata dal suo fabbricante. Anche la Züst si ritirò, ma poi decise di continuare la corsa, Frattanto, il comitato della gara aveva dato alla Protos una penalità di 15 giorni per non aver compiuto il percorso fino a San Francisco, e a noi un vantaggio di 15 giorni per aver fatto il viaggio in Alaska.

Dopo aver spedito avanti benzina e pezzi di ricambio con la ferrovia Transiberiana, il 22 maggio partimmo da Vladivostok. Avevamo fatto sì e no 30 chilometri quando raggiungemmo la Protos ch’era partita due ore prima e che ora era affondata nel fango da cui spuntava soltanto la sommità delle ruote posteriori. Prestammo ai Tedeschi la nostra corda da rimorchio e tirammo fuori dal fango la Protos. Il tenente Hans Koeppen, che guidava la Protos, un bell’uomo di 31 anni appartenente allo Stato Maggiore germanico, ci offri champagne per ringraziarci del nostro « atto generoso e cavalleresco ». Quella sera fummo noi a impantanarci e 40 soldati russi ci tirarono fuori dal fango.

Per alcuni giorni vivemmo nel fango. Infine la strada divenne talmente impossibile che tornammo a Nikolski (ora Voroscilov) per procedere sul binario della Transiberiana. Scoprimmo che la Protos l’aveva già fatto prima di noi e che era di nuovo in testa. Su questa « strada » sballottante ci scoppiarono due pneumatici uno dopo l’altro. In 240 chilometri ne logorammo quattro.

Passato il confine della Manciuria, dopo sei chilometri l’auto si fermò con uno schianto. Avevamo rotto sei denti del pignone e perdevamo olio da una fenditura di 15 centimetri nella scatola del differenziale. Saltai su un treno diretto a Harbin. Il viaggio richiese cinque giorni, ma tornai con i pezzi che avevamo ordinato molto tempo prima e telegrafai alla fabbrica di mandarci una trasmissione completa, via Europa.

Continuammo sul binario della ferrovia fino a Harbin e ripartimmo da questa città sei giorni dopo la Protos. Su piste che percorrevamo in comune con cammelli e asini, attraversammo rapidamente la Manciuria ed entrammo nella Siberia occidentale. Arrivammo a Chita due giorni esatti dopo la Protos che aveva ricevuto un premio di mille dollari dall’Automobile Club locale per esser arrivata prima in quella città. In mancanza d’altri lubrificanti comprammo 18 chili di vasellina per tacitare i nostri ingranaggi. In seguito dovemmo adoprare del sego.

All’estremità orientale dell’immenso lago Baikal raggiungemmo la Protos che, proprio in quel momento, era stata caricata sul traghetto. Per pochi minuti non facemmo in tempo, però, a caricare la nostra vettura sullo stesso traghetto e dovemmo aspettare 12 ore.

A occidente del Baikal procedemmo per due giorni e due notti. A un certo punto giungemmo a un fiume dove non c’era traghetto. Vedendo un villaggio un po’ più a monte sulla riva opposta, sparammo qualche colpo di fucile. Poco dopo comparvero degli uomini che, interpretando i nostri gesti, ci costruirono una zattera di tronchi di albero. Quasi sempre la gente che incontrammo si dimostrò amica. Una volta, però, fummo accolti a sassate in una località dove un’auto della corsa Pechino-Parigi aveva investito e ucciso un bambino.

La mattina del 29 giugno scorgemmo un veicolo in moto davanti a noi. «Dev’essere la Protos » gridai.

Ero io al volante in quel momento; premei sull’acceleratore e a poco a poco superammo i Tedeschi. Nonostante il fango, la Thomas procedeva a 50 chilometri l’ora.

« Buongiorno, signori » gridammo nel superarli. Koeppen ci salutò con il gesto di un antico cavaliere teutonico.


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Il primo luglio arrivammo a Omsk, 5485 chilometri da Vladivostok. Poco dopo, affondammo in un pantano e sentimmo il crac-crac di ingranaggi spezzati. Tornai a Omsk in un rozzo carretto e telegrafai in varie città cercando di rintracciare la trasmissione che avevamo ordinato a Buffalo. Ero disperato, quando Miller m’informò ch’era riuscito a rifare i denti dell’ingranaggio inserendo delle viti e poi limandole alla lunghezza voluta.

Ben presto fummo sugli Urali e il 6 luglio entrammo nell’antica Ekaterinburg (ora Sverdlovsk) dove i bolscevichi nel 1918 trucidarono lo zar Nicola II e la sua famiglia. La Protos era quattro giorni dietro a noi e aveva un assale spezzato.

Tre giorni dopo, su una ripida salita, la nostra trasmissione si ruppe definitivamente. Non c’era altro da fare che andare a Kazan, lontana circa 350 chilometri, dove avevo saputo ch’era arrivata la nuova trasmissione. Con una troika feci il viaggio di 690 chilometri in quattro giorni e mezzo e venimmo cosi in possesso della nostra preziosa trasmissione. Ma la Protos ci aveva superati.

Ora grandi autostrade passano dove la Thomas Flyer procedé nel fango, nella neve, nella sabbia. Amo credere che la nostra corsa del 1908 abbia contribuito un po’ a tutto questo.

Il 19 luglio arrivammo a Nijni Novgorod (ora Gorki) dove facemmo un bagno e un buon pasto. Erano 13 giorni che non mi toglievo gli abiti e le scarpe. Il 22 arrivammo a Pietroburgo (ora Leningrado) dove ci fecero soci onorari dell’Automobile Club di Russia. Ma Koeppen, che ancora ci precedeva, si era preso i premi in denaro offerti dal Club.

Lottando con il sonno e la stanchezza, attraversammo la Germania fino a Berlino dove arrivammo il 26 luglio. Qui il padre di Koeppen, un colonnello a riposo dai capelli candidi, c’informò che la Protos era arrivata a Parigi la sera prima. Non sapeva della penalità ch’era stata inflitta alla Protos per non aver compiuto tutta la traversata degli Stati Uniti, e quindi credeva che il figlio avesse vinto.

Il nostro « spunto » finale cominciò il 30 luglio dalla città belga di Liegi. Entrammo in Francia a Fumay, passammo accanto alla famosa cattedrale di Rheims e attraversammo Chateau Thierry. Procedendo a 80 chilometri l’ora su strade dal fondo acciotolato, arrivammo finalmente in vista di Parigi. La folla ci acclamava e ci lanciava fiori; dai marciapiedi, la gente seduta ai tavolini dei caffè sollevava i bicchieri gridando « Vive la voiture américaine! »

II Boulevard Poissonière era gremito di folla quando ci fermammo davanti agli uffici del quotidiano Le Matin alle 20 del 30 luglio, 169 giorni dopo la partenza da New York. Con il vantaggio assegnatoci per esser andati in Alaska e con la penalità inflitta alla Protos, la Thomas Flyer aveva vinto la corsa più lunga che fosse mai stata fatta. Il nostro contachilometri era rotto, ma noi calcolammo d’avere percorso 21.470 chilometri, 5224 piû della Protos. La Züst arrivò a Parigi il 17 settembre.

Passò qualche settimana prima che il comitato della gara decidesse in nostro favore, ma noi proclamammo subito la nostra vittoria e i Parigini ci offrirono un magnifico ricevimento al Grand Hotel.

Ho tuttora la patente di guida, ma a 89 anni lascio il volante a guidatori più giovani. Ho visto trasformarsi l’automobile da passatempo estivo dei ricchi, a veicolo che serve a tutti, per tutto l’anno. Ora grandi autostrade passano dove la Thomas Flyer procedé nel fango, nella neve, nella sabbia. Amo credere che la nostra corsa del 1908 abbia contribuito un po’ a tutto questo.

 

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