La stanza dell’olio d’oliva

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Regina in mani sapienti

Corfù, ore 23.00. La spia che indica la mancanza d’acqua nel circuito di raffreddamento di Regina la Range Rover lampeggia sospettosa stagliandosi tra gli angoli scrostati del cruscotto come una stella che, desiderosa di farsi ammirare, guadagna spazio tra le nuvole grigie. Mi abbaglia per un po’, a tratti regolari, poi svanisce. Un autentico sollievo dato che da lì a un’ora mi aspettano il traghetto per la Puglia e, a ruota, i mille chilometri verso Vicenza.

Trascorse quattro cinque ore in un’angusta cabina cullata dall’onda ionica e rinsecchita dal condizionatore, mi rifugio tra le lamiere dell’auto ad osservare il sole che nasce dietro i container del porto di Brindisi. Giro la chiave e è tutto a posto: il motore borbotta, le spie accese sono quelle di sempre. Immagino che il bagliore rosso-plastica della notte precedente fosse un mal di testa di Regina che, nobildonna attempata, richiedeva di essere lasciata in pace e non certo imbarcata su un fetido traghetto notturno. Regina e io facciamo colazione, gasolio premium e treccia noci e crema, e ci avviamo verso le terre a nord-est con l’andatura lenta e inesorabile di quei mezzi che attraggono gli sguardi dei bambini sui sedili posteriori e i lampeggi convulsi dei rappresentanti commerciali nelle loro station wagon tedesche e impazienti.

A un certo punto, tra gli ulivi e i trulli inondati di un sole candido e abbacinante, la stramaledetta spia riprende a tintinnare, che se anche non fa rumore è come se vociasse di uno stridio elettronico: tin, tin, tin.

Distributore in autostrada:

“Un litro di liquido per il radiatore.”

“Blu o rosso?”

“Blu dovrebbe andare bene.”

Regina lo ingurgita sbuffando: è assetata, esausta, credo che avrebbe preferito una limonata ghiacciata.  Tre cinque chilometri e ci risiamo con la spia. Risale il panico insieme al timore, più ardente ogni minuto, di non arrivare a Vicenza per la notte. Somatizzo il tutto in un dolore simile a un pugno alla bocca dello stomaco. Una voce amica conforta il mio viaggio perché si sa, è sempre bello condividere la vita – anche solo al telefono – quando la vita si fa scherzo di te. Dalle faccende più insignificanti ai pilastri stessi dell’esistenza, parlane con qualcuno è la medicina più efficace contro la paura dell’inaspettato. La voce perfetta mi guida a un’officina di San Severo e io posso scorgere nell’alzarsi ed abbassarsi del tono, negli accenti della voce, la sua partecipazione alla mia piccola, comica tragedia. Compongo d’un fiato il numero del meccanico.

“Siamo in pausa pranzo”. Mi desta al telefono una voce maschile con forte accento di mare e promontori a oriente. Regina arranca a fatica al cospetto della serranda chiusa. Con mezz’ora d’anticipo arriva Marino, a ruota Giovanni. In men che non si dica, Regina, stimolata dalle sapienti mani intrise di lavoro, riversa sulla resina del pavimento il liquido blu ingurgitato poco prima e fuoriuscito da un tubo feritosi contro la guarnizione della testata. Giovanni e Marino, la cui officina non ha nulla delle day clinic dei concessionari, giustificano la mia urgenza alle orecchie dei consueti avventori in Alfa 75 e Fiat Marea costretti ad aspettare, trovano il guasto e procedono alla rimozione della parte incancrenita. Giovanni si affretta in bici verso il ricambista che trova, però, ancora chiuso per il pranzo. Con una strategia artigianale condivisa da una rapida occhiata, decidono di fabbricare essi stessi il ricambio con due pezzi di gomma, un giunto metallico e due fascette. La riparazione riesce bene, e dopo un giro di collaudo per le strade delle chiese e degli ulivi, l’auto è decretata riparata e utilizzabile.

Giovanni e Marino sono padre e figlio. L’uno indossa pantaloni da città riconvertiti a tuta da lavoro e una camicia verdazzurra a maniche corte, l’altro la salopette del meccanico e la t-shirt di una marca di lubrificanti. Il primo è già in pensione ma al lavoro lo vedono tutti i giorni. Hanno entrambi la faccia buona del sud: gli occhi sorridono, i baffi appaiono appena trascurati e i capelli cortissimi di Marino sono spruzzati di grigio nonostante la giovane età. Parlano lentamente, mi rassicurano sul fatto che sarò a casa entro sera e che la riparazione resisterà a tempo indeterminato. Il padre mi dà del “tu”, il figlio del “voi” e mi chiamano “Pier Francesco”. Hanno trecento ulivi e producono l’olio. Vorrei comprarne cinque litri. Si apre una porta tra il banco di lavoro e l’attrezzeria. Intravedo le taniche accatastate e due grandi cisterne d’alluminio da cui Giovanni estrae, prima da una e poi dall’altra, i cinque litri dorati.

“La latta è omaggio”. Mi dice e io capisco che è in nome del rispetto reciproco, della fratellanza nord-sud, del fatto di avermi ospitato un pomeriggio di fine estate tra le sue mura, cliente controvoglia e amico per caso. La latta omaggio è il saluto allo straniero, ora che più tanto straniero non è.

Marino sostituisce i piccoli tubi dello sfiato del gasolio perché “si sentiva odore” e Regina ritorna più in salute che mai. Un intervento non richiesto, un piccolo zelo da autentico perfezionista.

Un ultimo giro di prova fino al bancomat, il “voi” che diventa “tu”, “Pier Francesco” che si tronca a “Francé”.

Pago qualcosa, decisamente poco rispetto ai salassi nord-estini, e ringrazio Giovanni e Marino con una stretta della mano destra e allo stesso tempo una pacca sulla spalla opposta. Incrocio gli occhi buoni di entrambi e un sorriso mi nasce dentro proprio lì, dove qualche ora prima mi aveva colto di sorpresa il pugno. Accarezzo il cruscotto scrostato di Regina e ringrazio anche lei, la perfetta sintonia dei suoi organi meccanici provati dal tempo con la bellezza senza tempo della gente del Gargano.

Pier Francesco Verlato

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