«Ci si mette il tempo necessario per la realizzazione di un lavoro ben fatto»
– Riccardo Bisazza
Un pomeriggio estivo nella Laguna Veneta: caldo-ma-non-troppo e umido come ci immagina che sia in un paesaggio di barene e canneti. Alcuni amici invitano Alessandra e me a una visita guidata di Orsoni Venezia 1888, l’unica fornace ancora attiva al centro della città che da quasi 150 anni produce i mosaici in vetro e a foglia d’oro con lo stesso metodo delle origini.
È Riccardo Bisazza, presidente di Orsoni, a accoglierci in quella che appare come una delle tante case del defilato sestiere Cannaregio, all’interno delle cui mura non ci si aspetterebbe mai di incontrare un esempio di artigianato nel quale la prima parte della parola – arte – assume una così ampia rilevanza. Ma non mi tratterrò sul perché gli artisti si innamorino della Fornace e, una volta conosciuta, non possano fare a meno di lusingarla per il resto della vita. La mia è piuttosto una disamina orientata a riaffermare i princìpi di un certo artigianato che diventa genio, spiritualità, comunità, mondo.
Lo Slow Manufacturing
Mi permetto di attribuire l’espressione Slow Manufacturing, coniata da me finché scrivo, al modo di fare impresa di Riccardo Bisazza e di illustrarla come uno dei segreti della longevità della Fornace. «Ci si mette il tempo che è necessario per portare a termine un lavoro ben fatto» pare il dogma di un imprenditore-filosofo il cui obiettivo è la soddisfazione dei propri clienti e non la crescita del giro d’affari anno-su-anno. E i suoi non facili interlocutori che vanno dalla Chiesa di Costantinopoli, ai grandi marchi del lusso e dell’hotellerie, all’Academy of Motion Pictures si dichiarano molto soddisfatti e anzi bramosi di riservarsi un paio di ulteriori ordini di produzione nei prossimi mesi, più facilmente nei prossimi anni. Magari i progetti delle basiliche, dei musei o degli hotel non sono ancora approvati in seno ai consigli dei cardinali, dei curatori e dei businessmen, eppure l‘idea di rivestire le pareti di un mosaico a foglia d’oro o di tremilacinquecento colori diversi (ci tornerò tra qualche riga) trascende le questioni più formali e fa sì che le meravigliose tesserine diventino la priorità numero 1 dei committenti.
Avevo scritto qualche tempo fa un breve saggio sul valore della manutenzione, del riparare, del “perdurare” rispetto all’usa-e-getta e al becero consumismo, ed ecco che il lavoro della Fornace si insinua esattamente in questa filosofia: le macchine per le lavorazioni sono ancora quelle progettate dal fondatore Angelo Orsoni sul finire del XIX secolo, i catini durano da sempre e non sono mai uguali a sé stessi dal momento che assumono il colore dell’ultima lavorazione, il vetro di scarto è riciclato o successivamente utilizzato da piccoli artigiani per la creazione di semplici e nobili monili. Il tutto avviene lentamente, consapevolmente e diligentemente dal momento che bellezza e qualità è tutto ciò che ci si aspetta dal lavoro dei maestri della Fornace.
Percorrerne gli spazi
Come dicevo, è il presidente Bisazza a guidarci nelle stanze, nei corridoi, negli spazi all’aperto. La visita ha inizio negli ambienti “direttivi”, a metà tra showroom e sale riunioni nei quali possiamo ammirare alcune creazioni della Fornace, raccogliere informazioni, ammirare i pannelli che Angelo Orsoni usava per illustrare i colori disponibili sul finire del XIX e all’inizio del XX secolo. Ascolto Riccardo e mi lascio trasportare dall’entusiasmo fotografico nel vano tentativo di catturare le foglie d’oro di differente intensità – diciannove carature in totale – i riflessi, i giochi del bianco che vira verso il blu o verso il giallo, a seconda della mescolanza tra la luce proiettata dal pallido sole estivo e quella puntuale dei fari da esposizione. Un’impresa ardua e pur necessaria, anche se il tentativo di ricostruire i contrasti, le atmosfere, i colori richiede uno slow editing impegnativo il giorno dopo.
La seconda parte della visita riguarda il crogiuolo, il cuore della Fornace dove il vetro viene fuso ad altissime temperature e i colori mescolati per raggiungere le tonalità desiderate. La temperatura della stanza è elevata ma si tratta di nulla di insopportabile dal momento che l’ambiente secco contrasta appena l’umidità dell’esterno. Dopo il mescolamento, avviene l’ “assaggio” del colore tramite l’estrazione di un piccolo campione – un disco di dieci centimetri di diametro – il raffreddamento e la successiva rottura così da poterlo osservare all’interno. Quando la mescola presente nel catino raggiunge la tonalità desiderata, ecco che le lastre di vetro colorato vengono sottoposte alla successiva cottura nel forno, così da consolidarne la struttura. È a quel punto, tramite le sapienti mani delle artigiane della Fornace esperte nell’uso della punta di diamante (lo strumento che serve per tagliare il vetro), che si ottengono le tessere che comporranno il mosaico.
Il passaggio successivo è una pausa all’Art Café: uno spazio all’esterno che funziona da estensione dello showroom e il cui pavimento è ispirato alle decorazioni di smalto tagliato a mano per la Sagrada Familia di Barcellona, opera dell’architetto Antoni Gaudì. Dopo il fuoco del crogiuolo, l’azzurro-acqua dell’Art Café ci riconnette a una dimensione più calma, più razionale, e ci prepara al momento successivo nella Libreria del Colore.
È impossibile, quando si apre la porta della Libreria, non trattenere il fiato per qualche secondo. Con una mossa poco gentile verso il resto del gruppo, mi impadronisco dell’ingresso così da ritrarre un ambiente eloquente di colori e, al contempo, silenzioso di voci e di rumori, in cui le 3.500 tonalità cromatiche della Fornace sono raccolte e catalogate. La visita alla Libreria è uno sguardo alla Venezia più segreta e misteriosa: si rivivono nella fantasia le lunghe ore di studio del colore, di sperimentazione con nuovi macchinari e sostanze, di riflessioni su come continuare a realizzare qualcosa che nessun altro fosse potesse nemmeno immaginare. In un mondo di nobiltà e di caste come la Venezia di fine ‘800, la Fornace, la Libreria del Colore e il fuoco-mai-spento rappresentavano la gente operosa, il progresso continuo nell’arte e nella bellezza, il sacrificio a qualcosa di ancora più sontuoso dei balli, delle maschere e del gotico. Ancora una volta, qualcosa destinato a rimanere e, anzi, ad acquisire valore nel tempo, in evidente contrasto con le brutture estemporanee degli ultimi 70 anni.
Arrivederci a molto presto
La Fornace ha lasciato un tatuaggio sul cuore mio e di Alessandra, e qualche punto di sutura nelle nostre anime perché tutti abbiamo bisogno di storia, di grazia e di esperienze che ci riconcilino con noi stessi e con gli altri. Forti e felici della nostra capacità di emozionarci, torneremo alla Fornace molto presto, e chissà quante volte ancora. Sarà insomma difficile distrarci dall’incanto che Orsoni Venezia 1888 continuerà a diffondere nel mondo.
Pier Francesco Verlato
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