Oggi la vera innovazione è la manutenzione

Uno dei fallimenti del capitalismo è la spinta verso l’innovazione. Nella maggioranza dei casi, è la manutenzione ciò che conta di più.

L’innovazione: un excursus storico

L’innovazione è da oltre 150 anni un valore dominante nelle società industrializzate. Innovare ci attribuisce un vantaggio competitivo rispetto ai nostri concorrenti, ci pone in una élite di aziende che fanno progredire il mondo. Innovare, poi, ci fa arricchire poiché chi crea un bisogno in precedenza inesistente – grazie non solo a un prodotto o a un servizio inedito ma anche a un sapiente uso delle leve del marketing – gode del dominio del mercato e di moltiplicatori a tre cifre in base ai quali stabilire il prezzo di vendita.

Nell’immaginario collettivo, l’innovazione è sexy: parleranno di te dicendo «guarda, è quello dell’app che ti fa trovare il compagno della vita» e, se ti fai prendere la mano, guiderai auto di lusso o viaggerai a bordo di un jet privato. La manutenzione e la riparazione sono invece banali: servono a tenere in funzione oggetti che già esistono ma alla cui esistenza, in quanto deja vu, non si pone poi tanta attenzione. Pensiamo alle infrastrutture come strade, ponti, ferrovie. Esistono, è un dato di fatto, e in quanto esistenti da sempre le diamo per scontate, salvo quando un danno di grande entità le rende inutilizzabili o pericolose. Sorge dunque spontaneo chiedersi: tra l’innovazione spinta dal bisogno viscerale indotto dai marketers e la manutenzione di ciò che essenziale a ripararsi, a ristorarsi e agli spostamenti, qual è l’attività che produce il maggiore impatto sulle nostre vite?

Come ci ricordano Andrew Russel e Lee Vinsel nel loro saggio Hail the mainteiners[1], quando sul finire degli anni ‘60 si palesarono le terribili conseguenze socio-ambientali della guerra del Vietnam, degli assassinii di John Fitzgerald Kennedy e di Martin Luther King, l’ideale del progresso si infranse brutalmente contro un muro di cinismo, dissolvendo in men che non si dica brillantine alla Mad Men e sorrisi Colgate. Fu allora che il termine “innovazione” prese piede, proponendosi come moralmente neutro e portando avanti un’idea di tecnologia svincolata dall’avanzamento economico e sociale.

Eppure, come tante volte succede, è sufficiente cambiare gli occhiali per attribuire allo stesso viso un fascino puerile, quasi virginale. E “innovazione” fu proprio il nome attribuito a questa nuova montatura, ben consci del fatto che la ricchezza di un paese fosse legata alla capacità di inventare e di produrre nuove tecnologie. Come ci spiega Robert Gordon nel suo The Rise and Fall of American Growth[2], tra il 1870 e il 1940 gli Stati Uniti vissero un periodo di crescita economica senza precedenti e probabilmente irripetibile, legato a tecnologie quali l’energia elettrica, il telefono, l’automobile e il petrolio, la televisione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, queste invenzioni assunsero il ruolo di simbolo del progresso sociale, un corso storico stigmatizzato nel famoso Dibattito in cucina tra il presidente americano Richard Nixon e il suo omologo sovietico Nikita Khrushchev[3], nel quale Nixon citava frullatori e lavastoviglie come emblemi della superiorità degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica.

Da quando, negli anni ’70 e nei primi ’80 del secolo scorso, l’industria automobilistica subì a livello mondiale un primo, importante rallentamento, nacque una nuova espressione, “politica dell’innovazione”, coniata per stimolare la crescita economica attraverso il cambiamento tecnologico, in particolare di fronte al Giappone, la cui concorrenza rischiava di oscurare il primato degli Stati Uniti e le eccellenze della vecchia Europa. Fu in quel periodo che la Silicon Valley giunse agli onori delle pagine economiche più prestigiose. Richard Florida, con la sua opera del 2002, The Rise of The Creative Class[4], consacrò quella piccola regione a sud di San Francisco come il centro mondiale dell’innovazione tecnologica, ripentendo questo termine, innovazione, più di 90 volte nello stesso testo.

Negli anni ’10 del nuovo secolo, con le aziende della Silicon Valley ancora lanciate in una corsa irrefrenabile, l’innovazione si è trasformata in un Sacro Graal da perseguire a ogni costo attraverso tecnologie disruptive che, in nome del libero mercato da un lato, della creatività e della ricerca scientifica dall’altro, si rivelano perfettamente bipartisan.

È però del 2012 un tentativo da parte del Wall Street Journal[5] di sfatare il mito dell’innovazione. A quel tempo, si potevano contare più di 250 libri con la parola innovazione nel titolo, pubblicati per giunta nei soli ultimi tre mesi. Un consulente per l’innovazione aveva cominciato a consigliare ai suoi clienti di vietare la parola nelle loro aziende: disse che si trattava di un termine utile solo a nascondere la mancanza di sostanza.

 

Il cambiamento continuo e l’ambiente naturale

L’innovazione è divenuta un valore intrinsecamente desiderabile, come l’amore, la fratellanza, il coraggio, la responsabilità. Ma a fronte di progressi scientifici dall’indubbia utilità, abbiamo assistito negli anni a un proliferare di tecnologie destinate più che altro a farci perdere tempo e a consumare invano risorse ambientali. C’è allora da chiedersi: in che tipo di società vogliamo vivere? Che cosa ci interessa veramente? Sta a noi soppesare accuratamente il costo sociale e ambientale di qualunque tecnologia con la quale entriamo in contatto, da utilizzatori e magari da inventori.

È dal mio ingresso nel mondo del lavoro nel 2004 che il mantra del cambiamento ad ogni costo mi risuona nella testa. Ai tempi ero un giovane human resources specialist di un importante stabilimento automotive. Change management è una delle espressioni che ricordo con maggiore frustrazione, cambiamento continuo è un’altra. Sembrava che i progetti venissero portati a termine per essere messi in discussione il giorno seguente, che l’ultimo consulente arruolato avesse la possibilità di buttare all’aria i mesi di lavoro (e i milioni di euro) destinati a implementare i processi che il consulente prima di lui aveva accuratamente disegnato e consegnato nelle mani della direzione aziendale. E siccome non si sapeva a che cosa fosse dovuto il fallimento del precedente tentativo, ecco che oltre ai consulenti per l’innovazione venivano introdotti anche quelli per facilitare il cambiamento. Tutti noi, giovani e promettenti graduates, eravamo invitati a corsi di formazione nei quali ci venivano consegnate pile di libri sul cambiamento e dei quali, con rammarico, non ricordo nemmeno una parola.

Ancora oggi, l’innovazione viene perlopiù trattata allo scopo del miglioramento delle performance aziendali, un punto di vista nobile con il quale ciascuno di noi imprenditori o manager deve sempre fare i conti, ma con il rischio di oscurare un elemento altrettanto e forse più importante: il fattore ambientale. A tale proposito, ci tengo a sottolineare alcuni elementi che, più che assiomi, voglio considerare spunti di riflessione.

  1. La gran parte delle tecnologie ha accelerato all’ennesima potenza l’impatto sul pianeta, sia in termini di consumo di risorse naturali, sia per quanto riguarda la produzione di rifiuti tossici. Basti pensare alla plastica, all’anidride carbonica, ai rifiuti atomici causati dai nostri consumi. Come ci ricorda lo scrittore Mathieu Ricard nei suoi dialoghi con il Dalai Lama[6], un atteggiamento di disinteresse verso la questione ambientale è contro la nostra stessa natura di abitanti del pianeta.
  1. Gran parte dei tentativi di innovazione e le relative sperimentazioni presuppongono di partenza un forte impiego di risorse naturali pur in assenza di una ragionevole certezza sul risultato finale. Come già osservato al punto 1., anche quando una nuova tecnologia evolve in produzione di massa, il più delle volte si raggiungono economie di scala negli investimenti finanziari ma raramente si ottengono efficienze nell’impiego delle risorse naturali.
  1. Tralasciando, per quanto importanti, argomenti filosofici relativi al consumismo e al distaccamento dalla natura come origini dei mali della società occidentale[7], va sottolineato come il marketing o una sua distorsione orientata al profitto-ad-ogni-costo abbia accelerato uno slittamento del paradigma mentale da “quest’oggetto ha finito per davvero la sua funzione” a “è uscita una novità, la devo avere per primo”. Inutile dire che i social media, e dunque la visibilità su ampia scala a portata di tanti, hanno accelerato la viralizzazione di questi infelici comportamenti.

 

Esaurire per davvero la funzione di un oggetto

Proviamo a pensarci: qualunque oggetto abbiamo posseduto sarebbe potuto durare di più: dal computer, al giaccone, agli sci, all’automobile. A un certo punto, però, ci siamo stancati di vederlo e abbiamo dovuto cambiarlo. L’abbiamo fatto per noi stessi, o per farci notare dagli altri (la cosiddetta “prova sociale” è di tutti, non neghiamo che ci riguardi!).

È soprattutto l’acquisto di beni nuovi ad abbassare la scure sul capo del pianeta, perché ciascun bene nuovo richiede risorse naturali in istanza diretta: materie prime che altrimenti non si utilizzerebbero. Ed è il mantra “Riduci, Ripara, Riutilizza, Ricicla” quello che invece consente un utilizzo delle risorse naturali se non sostenibile, quanto meno di buon senso. Mi chiedo però quanti tra noi utilizzino giacconi riparati o automobili vicine ai tre-quattrocento mila chilometri, anche se questo, con il pianeta in forte difficoltà, rappresenterebbe il minimo del buon senso applicabile.

Potremmo anche scendere nel dettaglio di come nella lavorazione di alcune materie – come ad esempio il legno che, attraverso un processo produttivo semplice e rispettoso della natura grazie all’applicazione di un sapere antico, diviene oggetto d’arredo – l’utilizzo diretto di risorse naturali sia decisamente più sostenibile rispetto ai materiali la cui trasformazione richiede processi che penalizzano fortemente l’ambiente. A questo scopo, mi preme ricordare come l’automobile, per la quale è in corso da decenni un battage pubblicitario massivo, racchiuda in sé tutti i problemi di un consumo esasperato di risorse naturali. «Il mio elettrico sì che è sostenibile, altro che il tuo gasolio» risponderanno i sostenitori dell’auto “a zero emissioni”, salvo il fatto che, per creare un mezzo in gran parte di plastica e dotato di batterie per tutta la lunghezza del pianale, sono stati utilizzati litio, cobalto e altre risorse presumibilmente scarse e il cui processo d’estrazione implica lavoro fisico in condizioni gravose.

Ridurre, Riparare, Riutilizzare, Riciclare è un dovere di tutti noi, e dobbiamo dedicarvici valorizzando la manodopera che può aiutarci in questo arduo compito, coloro che fanno andare avanti l’ordinaria esistenza senza premurarsi di creare nuovi bisogni artificiali. Basta riflettere appena per realizzare che la stragrande maggioranza del lavoro umano, dal fare il bucato a rimuovere i rifiuti, dalle pulizie e alla preparazione del cibo, è di questo tipo: manutenzione. L’ossessione per le nuove tecnologie oscura tutto il lavoro, compresi i lavori domestici che uomini e donne (ancora oggi di più le seconde) svolgono con grande dedizione e senza badare agli orari, al fine di consentire alle loro famiglie una vita ordinata e serena. Il lavoro in casa riveste enorme valore ma in gran parte non rientra nei parametri, come ad esempio il prodotto interno lordo, con cui si valuta la ricchezza di una nazione. Nel suo libro del 1983 More Work for Mother[8], divenuto ormai un classico, Ruth Schwartz Cowan ha esaminato come le tecnologie domestiche – lavatrici, aspirapolvere, frullatori – che promettevano un risparmio di fatica, hanno creato in realtà più lavoro per le donne a causa dell’aumento delle richieste di “servizi” da parte degli altri membri della famiglia e di una sempre maggiore rinuncia degli uomini alla collaborazione.

Prestiamo dunque tutta l’attenzione possibile affinché le innovazioni ci instradino in una direzione auspicabile per l’umanità e per l’ambiente, e non contribuiscano invece a aumentare le diseguaglianze e la paura del futuro a cui, purtroppo, ci stiamo sempre più abituando.

Pier Francesco Verlato

[1] Pubblicato sulla testata online Aeon al link https://aeon.co/essays/innovation-is-overvalued-maintenance-often-matters-more

[2] The Rise and Fall of American Growth. Princeton University Press. 2017.

[3] https://www.youtube.com/watch?v=-CvQOuNecy4

[4] Disponibile in italiano. Richard Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Mondadori. 2003.

[5] L’articolo You Call That Innovation?  è presente sul sito del giornale all’indirizzo https://www.wsj.com/articles/SB10001424052702304791704577418250902309914

[6] I dialoghi sono riportati integralmente in Dunne D. John (autore) e Daniel Goleman (a cura di), Ecology, Ethics and Interdependence. Wisdom Publications. 2018.

[7] Anche se mi permetto di consigliare Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini e Walden di Henry David Thoureau come punti di partenza di un arricchente approfondimento.

[8] Ruth Schwartz Cowan, More Work for Mother: The Ironies of Household Technology from the Open Hearth to the Microwave. Basic Books. 1983.

 

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