– testi e foto di Marco Latorre –
“…e quindi la Moto Laverda per te è un po’ come una donna?” Il Bepi mi guarda e sorride, complice: “Ecco, proprio così! … come Wanda Osiris!”
È forte il Bepi, è uno che ti parlerebbe di moto per ore e ore, perché è un vero esperto e perché le adora. Glielo leggi negli occhi.
Ma non potrebbe essere altrimenti, perché il Bepi è un pezzo di storia del motociclismo italiano. Per essere precisi, il Bepi – al secolo Giuseppe Andrighetto – è uno dei protagonisti che hanno fatto la storia di Moto Laverda: epico marchio italiano nato “ufficialmente” nel 1949 a Breganze, ai piedi dell’Altopiano di Asiago in Veneto e scomparso ormai dieci anni fa, nel 2006, dopo un susseguirsi continuo di successi e fallimenti.
Classe 1942, il Bepi Andrighetto è oggi uno dei più importanti esperti del marchio in Italia e nel mondo. Mi dice contento, forse un po’ commosso: “Quest’anno è il mio 56esimo anno di moto Laverda”; questo perché da quel primo giorno di lavoro in fabbrica – era il 29 febbraio del 1960 – il Bepi non ha mai più smesso di maneggiare telai e motori Laverda. Iniziò come tanti, facendosi le ossa in diversi reparti e poi – viste le sue capacità e il suo impegno – gli fu chiesto di fare il collaudatore. Fu proprio in quel momento che capì quale era il sogno della sua vita.
“Le prime uscite da collaudatore le ho fatte con le piccole cilindrate. Mi ricordo che all’epoca insieme alle maxi moto si faceva anche la 125 quattro tempi. E una partita di queste fu venduta in America a marchio Garelli. Le moto dovevano essere spedite “nude”, senza serbatoio o parafanghi, solo motore e ciclistica.” Ma prima della spedizione, si dovevano provare su strada: “Uscivo a fare il collaudo con la targa prova sulla schiena e come serbatoio avevo un piccolo barattolo da 1-2 litri attaccato al manubrio…” Il Bepi mi racconta che i poliziotti vicentini spesso lo fermavano e che ogni volta doveva spiegare che non era una moto taroccata (qualcuno direbbe “Special fatta in garage”) ma una moto Laverda da collaudare. “Venite a chiedere in fabbrica!” Qualche battuta più o meno simpatica e alla fine il verbale non glielo facevano mai.
Fare il collaudatore al Bepi piaceva davvero tanto: – ancora oggi, se siete fortunati, vi può capitare di vederlo su qualche 750 SF in prova per le strade di Breganze – sole, pioggia, freddo, caldo si usciva sempre. Un’ora di collaudo per ogni moto: “Bello o brutto si andava fuori volentieri perché c’era… c’era un po’ di brio. Essendo giovane, sai… hai i grilli per la testa. È lì che è cresciuta la mia passione.”
Tanta passione, un bel po’ di esperienza sulle spalle e nel ‘79 gli fu chiesto di andare in Libia per seguire un importante progetto di assistenza e collaudo di un centinaio di moto – dalla 1000/3CL alla 1200 TH del Trentennio – vendute alla Polizia Libica. Il Bepi non se lo fece dire due volte e seguì personalmente la messa in fase e la messa in strada. Qualche anno più tardi, nel ‘86, si trasferì per un mese circa in Siria: “A Damasco ero in uno Sheraton da 4-5 stelle. Mi hanno trattato veramente bene. Mi venivano a prendere e mi portavano in mezzo al deserto dove c’era l’esercito. Completai lì il collaudo di un centinaio di 1000 RGS Executive vendute alla Polizia di Damasco.”
Ma la vita è piena di altalene e fare il collaudatore negli anni settanta era molto pericoloso. “Era il 31 luglio 1970 – se lo ricorda bene il Bepi il giorno della sua più brutta caduta in moto – si iniziava a lavorare alle 6.00 del mattino. Era l’ultimo giorno di lavoro, poi dovevo andare in vacanza in Svezia con altri amici.” Dopo un passaggio dato a una ragazza che faceva l’autostop – “Lei capelli al vento, io con il casco. Non mi ha neppure detto grazie,” – e una commissione alla Casa del Cuscinetto di Vicenza sono tornato in fabbrica per le 9.00. Si faceva così “uscivano due collaudatori con le moto, il terzo rimaneva per la registrazione. Così quando tornavamo le moto erano già pronte per essere provate su strada.” Il Bepi prende una nuova 750 e si prepara per l’ultimo collaudo prima delle ferie. Due curve veloci e poi non si ricorda più nulla. “Mi sono svegliato la sera, alle 20.00 circa, all’Ospedale di Thiene in chirurgia. Ho visto mia madre, i fratelli, il direttore della fabbrica, amici. Trauma cranico e fratture varie. Sono stato molto fortunato.” In questa occasione mi parla di Francesco Laverda – il papà di Moto Laverda – “Mi è stato raccontato che Francesco si trovava in vacanza al Lago di Garda. La Gisella, che era la figlia del portinaio, gli telefonò e lui tornò assieme al fratello per venirmi a trovare in ospedale.” “Gli chiesi in che condizioni era la moto e mi rispose di stare tranquillo.” “Per me, era davvero una brava persona.”
Oggi il Bepi è un punto di riferimento per i Laverdisti di tutto il mondo. Nella sua officina restaura con precisione le più famose Laverda, le maxi moto 750 GT, S, SF, SFC, 1000/3CL, 1000 SFC e RGS. Da lui è possibile trovare tutti i pezzi di ricambio disponibili sul mercato ma non solo. Quello che non c’è e non si trova, il Bepi lo rifà come una volta. Spesso anche meglio. La sua preferita è la 1000 SFC – prodotta dall’86 all’88 – “perché ha la sella più alta e più stretta. È più guidabile rispetto all’RGS che invece ha una seduta più bassa e larga. Che ci devi stare con le gambe un po’ più aperte.”
Moto Laverda ha vissuto un periodo d’oro negli anni settanta soprattutto grazie alle sue maxi moto 100% italiane con una ciclistica tutta da domare, “il Lucchinelli e altri grandi piloti senior, anche Graziano Rossi, il papà di Valentino, si sono fatti le ossa con la 750 SFC”. Già la pre-serie della 750 SFC – un totale di 23 moto collaudate quasi tutte dal Bepi – fu vittoriosa anche a livello internazionale con i piloti Augusto Brettoni, che arrivò primo a Zeltweg, e Sergio Angiolini che – in tandem sempre con Brettoni – conquistò la 24 Ore di Barcellona sul Circuito del Montjuich.
Lo storico marchio veneto ha vissuto momenti memorabili, emozioni fortissime e poi un rapido declino, a partire dagli anni ottanta che neppure il Bepi sa spiegare. “Non si può fare i conti in tasca degli altri, non c’è calcolatrice,” mi risponde così ma poi mi tira fuori subito di quando Massimo Laverda lo chiamò in fabbrica una domenica, insieme ad altri colleghi. “Massimo apre il bagagliaio della sua BMW 520 e ci mostra un motore Zundapp 125, con marmitta, scatola filtro, gruppo strumenti e qualcos’altro. Ci guarda e ci dice che dobbiamo fare qualcosa con questi pezzi perché a novembre c’era la fiera a Milano e dovevamo presentare un nuovo modello.” Quella moto tutta italiana, fatta di passione e fatica sembrava non potesse farcela più, il mercato era troppo veloce. Troppo agguerrito. Ma forse non ci sono spiegazioni. Come dice il Bepi: “E’ andata così. È andata così.”
Alla fine dell’intervista, così per scherzare gli chiedo: “Ma se la 1000 SFC fosse un’auto da corsa, quale sarebbe?” Mi guarda divertito, con l’aria furba: “La Ferrari, Magnum P.I, la GTS … ma guarda che ce l’ho! La sognavo ancora quando lavoravo alla Moto Laverda. Solo che allora andavo alla ricerca dell’auto senza però avere i soldi per comprarla. Poi, un po’ alla volta, lavorando tanto, con i risparmi me la sono portata a casa.” Me la mostra come un trofeo e poi torna in officina. Ha un progetto interessante in cantiere. Per la fine del 2016 deve finire una vera “special” base Laverda con telaio Spaceframe. Mitico il Bepi.
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