24 ore in Albania. Un’esperienza surreale e bellissima

Range-Rover-Rust-and-Glory

-Passaporti e carta verde dell’auto.

-Buongiorno, eccoli.

-Perché mi dai carta verde? Tua assicurazione non valida in Albania. Vai a ufficio assicurazioni.

Al baracchino delle assicurazioni:

-Dobbiamo stare 24 ore

-Minimo quindici giorni. 49 euro.

Impoveriti e frastornati dal diesel esausto delle automobili in colonna alla frontiera che a Nord del lago Scutari separa il Montenegro e l’Albania tracciando una linea quasi perpendicolare dai Balcani all’Adriatico, riprendiamo la marcia con i finestrini abbassati per consentire all’aria calda di riassorbire le polveri sottili intrappolate nelle mucose. Regina (la nostra Range Rover di 25 anni), un ottimo contribuente al proliferare delle polveri in questione, trotta con un filo di gas sulla soglia dei 70 chilometri orari deliziandoci con il ta-ta-ta che contraddistingue il pulsare del suo vecchio e inarrestabile cuore a gasolio. Dopo quattro giorni a passeggio tra Croazia, Bosnia e Montenegro pensavamo di averne viste di scene inusuali ai nostri occhi borghesi, pronti sempre a stupirsi nonostante gli anni di scali aerei e una piccola fortuna vanificata tra guest-house, lounge e auto a noleggio in diverse parti del mondo. L’Albania è, semplicemente, una cosa a sé. Tra le fumate nere degli scarichi e la quantità insopportabile di bottigliette, fazzoletti e cicche a terra, la gente per la strada esibisce sempre un sorriso di ogni foggia e colore. Gli uomini – il 90% delle facce che si incontrano alla luce del sole, ovunque, sono facce maschili – si scambiano pacche sulla spalla con movimenti lenti e esagerati nell’estensione tipici del cameratismo balcanico, un modo di fare che dalla Croazia si estende alla Grecia, all’Ungheria e alla Romania. Le loro Mercedes anni ’90, giunte probabilmente con ancora appese le stampelle portabiti dei nostri rappresentanti di vestiti dell’epoca, fanno il paio con i jeans strappati a vita bassa e le magliette strette e stampate a colori fluo. L’abbigliamento si fonde con l’auto che a sua volta ospita un comportamento che diventa un autentico, caratteristico codice comunicativo. Alcuni quarantenni o più anziani, in vecchi sandali di cuoio intrecciato, pantaloni di nylon e camice di rayon con motivi indo-hawaiani, attraversano il confine a piedi dopo una contrattazione di cinque o sei minuti con l’ufficiale di polizia. Uno di loro cammina male, utilizzando la gamba destra a mo’ di compasso e disegnando un piccolo semicerchio ad ogni movimento. Un altro fuma e tossisce come se il suo albero bronchiale ospitasse il catarro di una dozzina di bambini asmatici. Un altro ancora indossa sulle spalle uno zainetto con raffigurati gli eroi intergalattici di un cartone animato anni ’80 e, di traverso sullo stomaco, uno screpolato borsello dell’Adidas. Ragioniamo sul fatto che possa trattarsi di manovali, gente poverissima che presta servizio nel fiorente settore dell’edilizia montenegrina.

La marcia pacifica e costante attraverso i 40 chilometri che ci separano dal nostro hotel a Scutari viene interrotta da un gruppo di dieci o dodici vacche che passeggiano in mezzo alla strada, alcune proprio sulla linea di mezzeria come se il pastore accanto dicesse loro “brave, state il più in mezzo possibile”. Gli occupanti delle Mercedes, costretti insieme a noi alla gimcana animale, scambiano con il pastore parole incomprensibili ai nostri orecchi ma con toni decisamente poco amichevoli.

A Scutari, la cui periferia mi ricorda alcune zone di Torino o Roma o Napoli, raggiungiamo al nostro albergo nel centro città: 50 euro a notte e un trattamento da Fedez+Ferragni. Regina, parcheggiata sul bordo strada, viene tenuta d’occhio da uno sdentato e abusivo fattorino dell’albergo che per una mancia di 500 lek (4 euro circa) ci promette di stare seduto sulla panchina accanto all’auto tutta la notte. Su consiglio della receptonist, una ragazza carina dai denti straordinariamente piccoli e gialli, decidiamo di cenare in un ristorante di pesce. Ordiniamo una zuppa molto buona e dei ravioli di gamberi e zucchine eccezionali. All’atto di imboccare il primo raviolo ci sfreccia davanti una persona affetta da nanismo su un quad piccolissimo, uno di quei mini-quad di 50 cc per bambini ricchi che fino a dieci anni fa avrebbero ricevuto in regalo una mini-moto. Proviamo un senso di rispetto per l’arte di arrangiarsi e il totale disinteresse nel giudizio degli altri dimostrato da quest’uomo. La città si sviluppa intorno a una zona pedonale molto viva e gestita con ottima cura: le famiglie passeggiano guardando le vetrine, moltissimi giovani popolano le pizzerie e i ristoranti che godono di un ampio patio all’aperto. Le note di Georgia on my mind, interpretata da una superlativa cantante afroamericana sul palco del jazz festival locale, si intrecciano con il canto del muezzin creando una commistione di suoni blues-arabeggianti inedita perfino agli stessi esecutori.

L’indomani l’auto è ancora lì, bellissima. Carichiamo, saliamo, per accorgerci che il tettuccio è rimasto completamente spalancato tutta la notte. 500 lek ben spesi.

All’atto di lasciare l’albergo, superiamo un signore con uno scooter per disabili autocostruito. Non il plasticoso veicolo con ruote di formato mignon – due dietro e una davanti – un piccolo manubrio con il cestino appeso, ma un ingegnoso mezzo a ruote alte ricavato da una motozappa, con un ampio portabagagli e un supporto per le stampelle che ne valorizza l’estetica posizionandole, come la spada di un samurai, di traverso alla schiena del guidatore. Arte di arrangiarsi parte due: profondo rispetto.

Transitiamo per Lezhë dove i poliziotti vanno a spasso a due a due su vecchie Moto Guzzi NTX da enduro. Quello dietro non porta il casco.

Ci fermiamo per comprare la frutta in uno dei numerosissimi baracchini lungo le strade. Il gestore, un undicenne al più, cerca di rifilarci due meloni per l’equivalente di una fortuna. Contrattiamo e, complice l’età del venditore e un nostro occidentale senso di responsabilità, concludiamo la trattativa convinti, però, di aver subito una mezza fregatura. Prima del baracchino, un lavazho (lavaggio) per auto, dopo il baracchino un altro. A duecento metri, un terzo lavazho: rudimentali capannoni di lamiera con pompe da giardino affioranti dal soffitto e, per terra, degli angosciati aspirapolvere da casa riconvertiti a un utilizzo intensivo. Nei lavazhos, Mercedes ovunque e ovunque uomini indaffarati a lavare cerchioni, lucidare maniglie, aspirare tappetini. Capiamo che la W124, la classe E degli anni ’90, è l’auto che connota l’Albanese riuscito nella vita e orgoglioso di sé, l’equivalente delle nostre attuali BMW station wagon e degli impiegati commerciali in giacca corta e risvoltino.

Imbocchiamo l’autostrada: un moderno cartello campeggia all’ingresso con le regole da seguire: luci accese, limite di 90 chilometri all’ora, divieto di transito ai mezzi inferiori ai 500 cc. Dopo un chilometro, superiamo un sorridente e sdentato signore in coppola e baffi a manubrio su uno scooter di 50 cc in piena corsia d’emergenza. Sul sedile del passeggero, l’equivalente femminile del conducente in foulard e gambaletti neri. L’arte di prendere la strada più veloce. Lungo l’autostrada, uomini a piedi fermi a bordo strada come ad aspettare qualcuno (probabilmente è così) e ad ispezionare i mezzi esotici in transito fissando negli occhi, per una frazione di secondo, il guidatore. Uno di loro, che probabilmente non aspettava nessuno, esibisce al nostro transito un gatto morto tenuto per la collottola.

Non esistono pompe di benzina di catene internazionali in Albania. Solo distributori privati con insegne mimanti i loghi delle grandi compagnie: BP, Repsol… Perfino Autogrill diventa GrillAuto e il logo, praticamente identico, è di un evidente giallo canarino invece che rosso. All’interno, il giallo canarino fa spazio al verde fòrmica degli scaffali e a una selezione dei prodotti buoni per la sopravvivenza o poco più.

Lasciataci alle spalle una bellissima zona montuosa ricca di valli disabitate e ampi corsi d’acqua d’un verdazzuro glaciale, giungiamo al porto di Saranda, dove prenderemo di lì a un’ora il traghetto per Corfù. La simpatica proprietaria di una rosticceria all’aperto ci apparecchia un tavolo con la carta servendoci mezzo pollo a testa, insalata, patate, acqua e caffé per l’equivalente di 8 euro. Parla Italiano meglio di tanti Veneti e accontenta Alessandra in un battibaleno sullo tzatziki, salsa greca e condimento inusuale in Albania. Dopo un piccolo fastidio burocratico legato alla prenotazione del traghetto e risolto con una spesa pari a un euro per la stampa dei voucher da parte di un’agenzia locale, ci imbarchiamo lasciandoci alle spalle uno dei luoghi più intriganti mai visitati. Arrivederci piccolo e anacronistico pezzo d’Italia, la prossima volta ti vivremo sicuramente più a fondo.

Pier Francesco Verlato

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