Una chiacchierata a cuore aperto, dieci anni dopo il boom delle moto speciali, tra mito, memoria e futuro.
Nicola Martini in conversazione con Paolo Pitossi e Pier Francesco Verlato
Certe storie non si raccontano, si vivono. Hanno il profumo della benzina vecchia, il suono metallico di una chiave dinamometrica e l’anima graffiata di chi le moto non le guida soltanto ma le sogna, le concepisce, le crea.
È da lì che parte questo viaggio: una conversazione libera, spigolosa, senza filtri – “senza né capo né coda”, direbbero i giornalisti, quelli bravi – tra Nicola Martini (Mr. Martini, per chi mastica di motorcycle culture), Pier Verlato di Rust and Glory e Paolo Pitossi di Petrō Classic. Un dialogo tra amici, artigiani, appassionati. Un momento per chiedersi: e adesso, che ne è rimasto della motorcycle culture?
Dieci anni dopo l’età d’oro delle moto speciali, si riapre il cassetto dei ricordi, ma anche quello delle ferite, delle intuizioni geniali e degli errori che bruciano ancora. Si parla di estetica, di motori, di marketing miope e di sogni che non trovano posto nei bilanci. Ma, soprattutto, si parla di un modo di vedere il mondo: sporco di grasso ma pieno di luce.
La generazione Special
Nel cuore di Verona, in un’officina che odora di olio minerale e di tardo inverno, Nicola Martini si muove con la naturalezza di chi ha passato trent’anni a smontare, tagliare, saldare e rimettere insieme moto e progetti. Mr. Martini è un nome che ormai è leggenda ma Nicola, all’inizio, era solo un ragazzo con la testa piena di idee e la voglia di personalizzare qualunque moto gli capitasse a tiro. Restauratore, customizer, ex concessionario Triumph a Verona: una figura fuori formato, instancabile, visionaria. Uno che ha portato l’artigianato motociclistico italiano nel mondo e che, tra un serbatoio da ripristinare e il tornio da manutenere, si è messo in testa di ridare senso al mestiere.
Accanto a lui, Paolo e Pier osservano, commentano, ogni tanto si interrompono a vicenda.
“Disegnare, costruire, sporcarsi le mani… è come respirare,” dice Nicola. “Non posso farne a meno.”
Negli anni Duemila, le special erano un atto d’amore. O di testardaggine. Triumph, Ducati, vecchie Honda, qualche Harley: prendevi una moto di serie, la svuotavi, la ricucivi addosso al proprietario. Ciascuna raccontava la storia di chi la guidava.
“Le moto migliori sono già state costruite,” osserva Paolo. “All’epoca, prendere una moto di serie e personalizzarla era quasi un atto dovuto. Era il nostro modo di dire: ‘Io sono diverso’. E non perché volessi farti notare. Ma perché non sopportavi l’idea di essere uguale agli altri.”
Le mani di Nicola continuano a lavorare mentre la conversazione scorre. Si parla di fiere, clienti strani, dettagli maniacali. Non c’è nostalgia nell’aria. C’è qualcosa di più simile a una riga tracciata con un bastoncino sulla sabbia in corrispondenza dello start di una beach race: c’è un prima e c’è un dopo.
Storie d’officina
Nessuno sa da dove parta davvero una special. Forse da una chiacchiera a un evento, da una foto sgranata vista su un vecchio forum, o da un serbatoio trovato per caso in un cassone rugginoso. Quello che è certo è che non parte mai da un foglio Excel.
I tre protagonisti di questa conversazione si muovono tra nomi di modelli come fossero vecchi amici di gioventù: GPZ, Monster 900, Speed Triple, Rocket III. Ne parlano come si parla delle ex. Quelle che ti hanno lasciato, o che hai lasciato, ma che in fondo non riesci mai a dimenticare.
Pier rispolvera la foto di un cupolino fatto rifare da Sami per la bagger ante-litteram di Paolo: una meraviglia, dice. “Serviva a renderla simile a una club style.” Paolo ricorda: “Avevo preso ispirazione da un modello visto su Cafe Racer (rivista francese, n.d.r.). Era in alluminio, leggerissimo: roba da primato.”
Ogni moto è un racconto. Ogni dettaglio ha una storia, spesso più lunga della lista dei componenti. Ci sono serbatoi Italjet trapiantati su Triumph, piastroni lucidati per mesi, manubri torniti su misura. E poi cilindri al Nikasil, pedane arretrate, codoni disegnati al buio, a memoria.
Ricorda Nicola: “La Vulcan 70 (Kawasaki, n.d.r.) l’abbiamo presentata per tre anni di fila, perché era impossibile farne più di 30 alla volta. Una per una, come si fa con le cose che valgono.”
Tra un aneddoto e l’altro, salta fuori anche la giostra. Sì, una vera giostra. Motor Bike Expo, 2012. Tutti a piangere crisi, a fare gli austeri. Nicola arriva con una giostra vera, palloncini e zucchero filato. Le moto giravano in tondo come cavalli. “Mi guardavano tutti come se fossi pazzo. Poi sono arrivati i giornalisti. E una nota casa motociclistica, pochi mesi dopo, ha fatto la stessa cosa.”
Si nota una punta di risentimento nelle parole di Nicola, ma anche parecchio orgoglio. Quello che viene dal sapere che ci sei arrivato prima. Anche se nessuno ti ha ringraziato.
L’officina è un mondo a parte. Fatto di banconi, di polvere, di idee a metà. Ogni tanto ci scappa la moto della vita. Altre volte, una che non è mai come la si era immaginata.
Marketing e altri disastri
“Il target.” Nicola lo dice come si direbbe “il colesterolo”, con la faccia di chi ne ha già sentito abbastanza.
“Un giorno è arrivato uno con la camicia bianca, le scarpe di legno e un iPad. Mi ha chiesto: ‘Ma qual è il vostro target?’ Gli ho risposto: quelli che non ci fanno domande del genere.”
Pier annuisce, appoggiato a una BMW R 75 quasi in consegna al suo futuro proprietario, una light custom – come si dice oggi – a dimostrazione del fatto che, di questi tempi, gli slanci creativi penalizzano gli affari.
“A un certo punto il marketing ha capito che il mondo special tirava. Solo che ha fatto quello che fa sempre: lo ha impacchettato, stirato, reso commestibile. Per tutti. Quindi per nessuno.”
Negli anni in cui le special esplodevano, le case madri iniziavano a fiutare l’aria. Arrivarono le cafe racer “moderne” (ricordate Yamaha Faster Sons?), le scrambler “di fabbrica”, gli showroom con le cassette di legno e i barbershop incorporati. Il finto grezzo, con dentro la carta velina.
“Mi ricordo un cliente – racconta Nicola – che venne da me con una brochure Ducati sotto il braccio. Voleva ‘una moto come quella (la Ducati Scrambler, n.d.r.), ma più vera’. Gli chiesi cosa intendesse per ‘vera’. Mi disse: ‘Con le saldature a vista’.”
Il punto è questo: il marketing voleva vendere autenticità, ma la ricerca dell’autenticità – a maggior ragione se legata ai risultati aziendali – perde essa stessa di significato.
“La verità – aggiunge – è che quando iniziano a copiarti, sei già fuori moda.”
Il problema non era vendere moto. Era che volevano proporre un’estetica senza valorizzare il lavoro che c’è dietro. Le tante ore di ricerca e di realizzazione dei modellini su cui affinare le forme, gli errori, l’idea sbagliata che diventa giusta all’ennesimo tentativo.
“Una volta ci presentarono una strategia per ‘comunicare la nostra anima’. Usarono proprio quella parola: ‘strategia’, nella stessa frase con ‘anima’. A quel punto capii che dovevamo chiudere tutto.”
E, in effetti, Numero Tre Verona, meglio conosciuta come “Triumph Mr. Martini”, smise di esistere.
La caduta e la rinascita
A un certo punto, molli. Non perché ti sei stancato. Ma perché quello che hai davanti non somiglia più a quello che avevi in testa.
Nicola lo ha capito in silenzio, una mattina come tante. Nessun colpo di scena. Solo il pensiero: “Non è più il mio posto.”
La concessionaria Triumph, quella storica di Verona, quella di Mr. Martini, era diventata un’altra cosa rispetto all’entusiasmo degli inizi. Più e-mail, meno ferro. Più procedure, meno idee. Più showroom, meno officina.
“Quando feci presente a Triumph che le vendite stavano calando, e non per colpa mia, mi suggerirono di inserire un altro marchio. Risposi: eliminiamo quello che c’è.”
“Hai capito? È come se tua moglie ti dicesse: ‘Scopa con un’altra, così magari ci riprendiamo’.”
Dopo vent’anni a capo della concessionaria Triumph più famosa d’Italia, Nicola ripose le insegne “Numero 3 Verona” in cantina e cominciò a fare altro: un ristorante, sempre ispirato al mondo delle moto speciali. Così, senza troppa teoria, ma con in tasca un diploma all’Istituto Alberghiero: un altro punto d’orgoglio.
Il garage è rimasto. Non più come centro operativo. Più come laboratorio di restauro. Le moto si fanno ancora, ma solo quando ne vale la pena. Quando c’è un motivo o anche solo una buona intuizione.
“A volte le vendo con la clausola: vietato customizzare.” Perché se devi ridurre una bella moto in un cesso, allora no.
E intanto, il mondo là fuori cambiava. Si riempiva di progetti senz’anima, di finti vintage, di gente che voleva moto “che sembrano fatte a mano”, ma con il finanziamento a tasso zero. Nicola tirava giù la serranda quando gli girava. Oppure la lasciava su, e si metteva a lavorare su una verniciatura assurda vista su una vecchia Land Rover. O su un’idea che gli era venuta di notte, senza nessun cliente dietro.
E alla fine, che cosa resta? Restano le mani che ancora sanno fare perché, come ci ricorda il titolo del libro per il 25° anniversario di Mr. Martini, ‘siamo ciò che costruiamo’. Resta lui, che ogni tanto guarda una moto appena finita e pensa: questa, forse, è la più riuscita. Ma poi ne inizia un’altra. Perché il bello è proprio in quel “forse”.
Il futuro che non si aspetta
Non c’è più la fila in bottega. Non ci sono più neanche i clienti che volevano “una come quella, ma con il serbatoio rosso”. Oggi si fanno i restauri o, al più, le light custom.
La generazione delle special si è sparpagliata. Alcuni hanno appeso il casco al chiodo. Altri fanno ancora finta di crederci, sui social. Altri hanno ricominciato da capo, senza doverlo spiegare a nessuno. “Le cose vere tornano sempre,” dice Nicola. “Magari non subito. Magari non come pensi. Ma tornano.”
Pier guarda una moto nel mezzo dell’officina. “Oggi la gente cerca l’esperienza. Ma non sa bene quale. E comunque la vuole pronta.” Il paradosso è che adesso c’è tutto. Le piattaforme, i pezzi, i tutorial. Ma manca l’urgenza. La voglia di sbagliare per capire. Di rifare da zero, anche se nessuno te lo ha chiesto.
“Mi scrivono ancora,” dice Nicola. “Mi dicono: ho visto la tua moto su Instagram. Ne vorrei una. Poi scoprono che servono il tempo, i soldi e la fiducia. E spariscono.”
Ogni tanto arriva qualcuno diverso. Non molti. Gente giovane, che si presenta senza troppa scena. Uno ha passato tre mesi a sistemare un cambio. Un altro ha chiesto di poter solo guardare. Non sanno tutto, ma vogliono imparare. E non hanno fretta.
Forse è da lì che si riparte.
“Io non credo più ai numeri,” dice Paolo. “Credo alla gente che resta dopo che hai spento la luce.”
Il futuro delle special non sarà mai un altro trend. Sarà, forse, un ritorno a quello che era all’inizio: un gesto. Un garage. Un’idea storta.
Chi vorrà davvero una moto che parli di sé, dovrà ancora farsela costruire. O farsela da solo. E chi vorrà vendergliela, dovrà metterci dentro un ingrediente che non si può raccontare. Né postare.
– Verona, 29 marzo 2025
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