Eugenio Maggioni. Moto e altre forme di tempo

Conversazioni in officina tra motori, memoria e una certa idea di eleganza.

Foto di Andrea Vailetti

Testi di Pier Francesco Verlato

Le officine hanno un odore preciso. È un mix di ferro caldo, olio vecchio, tela sdrucita e silenzi pieni. Quando si entra in una di queste botteghe che resistono al tempo, succede qualcosa: è come se il passato ti stringesse la mano. È quello che è successo a me, Pier Francesco Verlato di Rust and Glory, quando ho passato una mattinata tra chiacchiere, storie e caffè in compagnia di Eugenio Maggioni, meccanico, restauratore e anima di Maggioni Moto Riparazioni, e Andrea Vailetti, fotografo, motociclista e instancabile cercatore della bellezza.

Questa non è un’intervista. È una conversazione vera che gira rotonda come un vecchio boxer: una lunga curva tra tecnica, cultura, viaggi e scelte di vita.

Parte 1: La bottega sotto casa

“Ho iniziato a lavorare qui a 14 anni. Mio padre era in officina dal ’69. Noi stavamo sopra. Quando non eri in casa, eri in bottega. Fine.”

La scena è quella di un’Italia che sembra lontanissima, ma che per qualcuno – come Eugenio – è ancora il presente. Una vita tra chiavi dinamometriche, ganasce, bilancieri e guarnizioni, con la cadenza lenta e precisa del mestiere artigiano. Nessuna scorciatoia, solo esperienza, metodo e un rispetto assoluto per i mezzi e per le persone.

La romantica immagine della bottega sotto casa ha però un prezzo: “Prova tu a non smettere mai di lavorare. Perché a casa ti viene un’idea… e sei di nuovo giù.” Il confine tra lavoro e vita privata sfuma tra un carburatore da regolare e l’ennesimo caffè.

La passione è un mestiere totalizzante. E l’arte, in questo contesto, sta tutta nell’organizzazione. Andrea lo dice chiaramente: “Eugenio è più preciso di un concessionario. Ti dà una data e quella è.”

Manutenzione o archeologia?

Il tema si sposta sulla manutenzione delle moto d’epoca. Qui non si parla di “tagliando” come se fosse un forfait del centro commerciale. “Farmi fare un preventivo per un G/S?” dice Eugenio. “È come andare dal medico a chiedere una cura prima della visita.” E poi elenca: coperchi spanati, guarnizioni fossilizzate, gabbie dei bilancieri crepate. “Come fai a dire quanto ci vuole? Lo scopri solo aprendo.”

Quando si parla di moto d’epoca, la parola chiave non è estetica, ma affidabilità. “Una moto d’epoca deve essere perfetta meccanicamente,” dice Eugenio. “Perché se domani mi sveglio e voglio andare a Monaco, ci vado. Senza pensarci.”

Il vero restauro inizia sempre con una diagnosi profonda. Non basta aprire il serbatoio o guardare la vernice: bisogna smontare, ascoltare, intuire. A volte quello che sembra in ordine nasconde guarnizioni fossilizzate, filetti spanati, o – come in un caso emblematico – il disco frizione montato al contrario.

Si tratta poi di valorizzare l’estetica – vernici, cromature, patina – senza scendere a compromessi con l’efficienza meccanica. Un restauro non deve per forza significare lucido da vetrina ma rispettare la storia di ciascun esemplare.

Vecchie moto, nuovi motociclisti

C’è poi il tema di chi si avvicina oggi al vintage. E qui la voce di Eugenio si fa più ruvida. “Arriva un ragazzo che vuole comprare un G/S e mi chiede: ‘Ogni quanti chilometri lubrifico la catena?’ Ma è un BMW con la trasmissione a cardano!” Non è solo ignoranza tecnica. È mancanza di cultura motociclistica.

La moto d’epoca non è un oggetto da esibire. È una maestra. Un piccolo dojo su due ruote. Ti insegna la pazienza, la manutenzione, la sensibilità. “Un viaggio comincia nel box,” dice Andrea. “E finisce in uno scatto su pellicola.”

Una volta, Andrea affidò la sua R80 a Eugenio prima di partire per un viaggio. “Che attrezzi devo portarmi?” chiese. “Solo la chiave di scorta,” fu la risposta. Perché la moto, sistemata bene, è affidabile. Ma serve consapevolezza. E un po’ di rispetto per il mezzo che hai sotto.

Tra restauri impossibili e viaggi memorabili

A un certo punto, la conversazione scivola su una R75/5 restaurata fino all’ultimo dado. Un’impresa quasi disperata: parti mancanti, errori grossolani di chi l’aveva riparata prima, albero motore di un altro modello. “Ero a un passo dallo smontarla e venderla a pezzi,” dice Eugenio. “Ma poi l’ho finita. E sono andato a Lourdes. Davvero. Mia moglie mi ha detto: ‘Portala a Lourdes a farla benedire’. E così ho fatto.”

Quel viaggio, 4000 km in una settimana con sua figlia, è il compendio di una filosofia. Non si tratta solo di moto. Si tratta di viverle e conoscerle. Essere pronti a sistemarle al volo se serve, ma anche a fidarsi. “Dopo un restauro, uno ti direbbe: non partire subito. Io invece ci sono andato in Francia. E sì, ho bucato in via Dante, ma fa parte del gioco.”

Moto, memoria e muscoli

Non è solo nostalgia. È conoscenza, è cultura tecnica, è una passione che si tramanda insieme al mestiere. Eugenio ricorda il padre, i campi da cross abusivi a Milano, la montagnetta di San Siro. “Era normale avere la moto. Era normale sapere come si registra un gioco valvole.” Oggi, quel sapere si è rarefatto.

Parte 2: Moto come persone

Ci sono moto che si lasciano guidare. Altre, invece, vogliono essere capite. La differenza? Sta tutta nell’esperienza, nella pazienza, nella volontà di apprezzare (a volte, di tollerare) il carattere di un mezzo come se fosse un vecchio amico. Ecco dove la conversazione con Eugenio Maggioni e Andrea Vailetti prende quota: su un terreno fatto di memoria meccanica, rispetto per la storia e un rigore quasi filosofico.

Perché – come dice Eugenio – “non esiste una moto uguale all’altra. Anche se è lo stesso modello, avrà bisogno di essere capita a modo suo”.

Ogni moto, una lingua diversa

Nel flusso della chiacchierata si parla di freni a tamburo, di ganasce che durano cinquantamila chilometri, di K100 che vanno mantenute vive usandole spesso, altrimenti si spezzano come animali in cattività. La tecnica si intreccia all’aneddoto, e tutto acquista senso nel momento in cui diventa racconto.

Andrea si perde in ricordi e dettagli, come quello della prima volta su un R60/2 con avviamento a pedale. “Do una pedata secca da endurista, la leva va giù molle e la moto non parte. Allora arriva il vecchio proprietario, si appoggia col peso, colpo morbido… e la moto si accende.” Un gesto, una danza. La meccanica come arte marziale.

Moda, passione e selezione naturale

Il G/S, simbolo di una generazione di viaggiatori, è anche un banco di prova per distinguere la moda dalla passione. “Il boom delle cafe racer ha fatto da filtro,” dice Eugenio. “Chi cercava solo lo stile si è fermato lì. Chi invece ha scoperto la sostanza, prima o dopo è arrivato al G/S.”

Il vintage non è per tutti. Serve una cultura tecnica, la disponibilità a sporcarsi le mani – o almeno a capire cosa si muove là sotto. Serve sapere che un restauro non è solo estetica: è scegliere di cambiare la pompa dell’acqua del K100 anche se costa 750 euro, perché altrimenti è tutto inutile. È mettere in conto che per ricostruire a regola d’arte il motore di un’XL ne servano tre, come sostiene il collezionista Franco Molon.

Non è questione di snobismo. È amore. E l’amore, si sa, richiede tempo, fatica e anche qualche no.

L’insegnamento delle cose vecchie

C’è un certo piacere, quasi zen, nel dover imparare le “procedure” di una moto. Eugenio lo dice chiaro: “Non è che sei stupido, è che non conosci la moto. E finché non la conosci, ti fa impazzire.”

Andrea lo vive sulla propria pelle, parlando dell’XT 500: “Avviamento a pedale: tiro l’aria, cerco il punto morto, una pedata, parte. E mi sembra di andare in vacanza anche solo per andare al lavoro.”

Non è nostalgia. È ritualità. È una forma di presenza, di consapevolezza. Come fotografare in pellicola o scrivere a mano: devi fare le cose con attenzione, altrimenti non escono.

Contro la cultura del “quanto costa?”

C’è una parola che torna spesso: affidabilità. Non “riparabilità”. Non “bellezza”. Affidabilità. “Io ti faccio il restauro come si deve,” dice Eugenio, “ma se poi mi chiedi quanto costa, e storci il naso… allora la moto non fa per te.”

Ci sono clienti che vogliono la moto perfetta a poco prezzo, magari con i ricambi presi su eBay. Sulle moto di trent’anni fa, questo approccio non funziona. “Meglio una moto tenuta bene che due tenute male.”

Social e relazioni vere

Poi la conversazione si allarga. I social, le discussioni, la cultura del commento facile. “Io non commento mai niente,” dice Andrea, “perché tanto basta dire una cosa e sei già il nemico.”

Eugenio rilancia: “Il confronto è bello solo se c’è rispetto. Ma oggi tutti vogliono avere ragione.” Però, ammettono entrambi, i social servono. Hanno fatto incontrare persone, hanno creato viaggi, amicizie, collaborazioni. Purché il contatto virtuale diventi reale. “Altrimenti è solo scena.”

Parte 3: Eleganza, tempo e altre forme di resistenza

Ci sono momenti in cui la conversazione smette di essere chiacchiera e diventa filosofia. Non quella da cattedra ma quella da officina, dove la saggezza si misura in chilometri, in graffi e in cose fatte durare. Nella terza parte di questa lunga chiacchierata con Eugenio Maggioni e Andrea Vailetti, il cuore del discorso batte attorno a un tema preciso: il tempo. Come lo spendi, con cosa lo attraversi, e soprattutto, con che stile.

Il valore del gesto

Tutto parte da una foto. O meglio, da una macchina fotografica. Andrea racconta della simbiosi tra la fotografia analogica e le moto d’epoca. Entrambe richiedono tempo, attenzione, pazienza. Entrambe restituiscono qualcosa solo a chi sa aspettare. Eugenio annuisce, e rilancia: “Un viaggio non è il tragitto tra due punti. È la preparazione, le aspettative, e poi il ricordo. Il mezzo – moto o macchina fotografica – è il tramite. Ma quello che resta è il percorso. È lì che c’è la qualità.”

E proprio sulla qualità si concentra tutta la discussione. Non parliamo solo di componenti, di marmitte o di rullini Kodak. Parliamo di scelte. Di consapevolezza.

Contro l’urgenza: lentezza come lusso

C’è chi guida per arrivare e chi per apprezzare ogni momento del viaggio. Chi fotografa per pubblicare e chi lo fa per ricordare. Anche le prime fotocamere digitali hanno il loro perché, quelle che pesavano come una barra di piombo e avevano il sensore infinito, come la Canon 5D Mark II: lente a focale fissa, nessuna preview, senza Wi-Fi. Anche in questo caso, l’idea è lasciare che l’immagine venga fuori dopo, come un ricordo che si sviluppa con calma.

È lo stesso principio che guida il modo di vivere la moto. “Il rumore deve avere senso,” dice Eugenio parlando delle marmitte. “Non puoi prendere una BMW e metterci una marmitta aperta solo perché ‘fa figo’. È come mettere le Church con le braghette corte. Non è eleganza, è travestimento.”

La sindrome dell’apparenza

Qui il discorso si fa anche polemico. Si nomina chi ‘vende un’immagine’ senza esserne all’altezza, chi trasforma la passione in un indicatore economico. Ma la critica non è rabbia: è disillusione. “L’eleganza è il gesto”, racconta Andrea, descrivendo il ricordo di un uomo che, camminando, proteggeva il vetro dell’orologio con il polso. Piccolo gesto, grande stile. Senza bisogno di proclami.

Ecco la differenza: chi vive le cose e chi le usa per farsi vedere. Eugenio lo dice così: “La fotografia analogica, come il motociclismo vintage, è una scelta. Scomoda, magari. Ma sincera. E oggi, nella cultura dell’immediato, è una forma di resistenza.”

Appartenenze vere

Ma non c’è solo critica. C’è anche il racconto di una comunità silenziosa e concreta. Quella che si ritrova prima della chiusura natalizia all’officina di Eugenio per un panettone, una focaccia e due parole tra gente che si riconosce. Non per guadagnare follower, non per etichetta. Per affinità.

“È una tribù,” dice Andrea. “Ci riconosciamo negli atteggiamenti, nei dettagli, in un certo tipo di umorismo. Non è solo estetica. È etica.”

Tempo, qualità, scelta

In chiusura, la riflessione torna lì dove tutto è cominciato: sul tempo. “A un certo punto della vita,” dice Eugenio, “non è più la quantità a contare. È la qualità. Io voglio essere contento di andare a lavorare. Voglio parlare con qualcuno che ha qualcosa da dire. Voglio mettermi in moto non per arrivare, ma per godermi ogni singolo chilometro.”

È una lezione che vale per tutto: moto, foto, orologi, relazioni. La bellezza non sta nella perfezione. Sta nella coerenza tra ciò che fai e ciò che sei.

L’eleganza è resistenza

Non è solo meccanica. Non è solo fotografia. È una visione del mondo.

In un’epoca in cui tutto deve essere veloce, immediato, appariscente, c’è chi sceglie di rallentare. Di mettersi al lavoro su un vecchio motore. Di aspettare che si scaldi. Di scattare in pellicola e aspettare di sviluppare. Di fare meno, ma farlo bene.

L’eleganza, in fondo, è saper scegliere. Una scelta controcorrente. Una forma di resistenza.

Ecco perché ci piace raccontare storie così. Perché dentro ogni vite allentata, ogni cambio regolato, ogni click analogico… c’è un messaggio chiaro:

Fermati. Osserva. Vivi.

Questa non è solo una cultura motociclistica.
È una forma di eleganza esistenziale.

– Milano, 2 aprile 2025

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