Daniel Day-Lewis. Quando il set lasciò il posto alla calzoleria.

È il 1999. Daniel Day-Lewis lascia tutto: Hollywood, guadagni straordinari, uno stile di vita da star e si rifugia a Firenze, dove vive a San Niccolò, il quartiere delle piccole botteghe artigiane e delle strette stradine che salgono verso Piazzale Michelangelo. Ogni mattina si veste con una camicia a quadri, un paio di jeans e inforca la sua bici per recarsi alla bottega di Stefano Bemer, maestro calzolaio specializzato in scarpe su misura, dove svolge un apprendistato gratuito.

Quando Daniel era piccolo, suo padre, il poeta Cecil Day-Lewis, trascorse alcuni mesi negli Stati Uniti e tornò a casa con racconti e un paio di stivali logori. Da adulto, Daniel indossò quegli stessi stivali fino a quando non furono più riparabili. “Mi si spezzò il cuore”, ricordò in seguito parlando del giorno in cui dovette separarsene. Da allora, realizzare scarpe eterne è rimasta una sua ambizione, qualcosa a cui, quando la vita glielo avesse concesso, si sarebbe dedicato con anima e corpo.

Daniel Day-Lewis è un attore britannico, vincitore di tre Premi Oscar per Il mio piede sinistro (1990), Il petroliere (2008) e Lincoln (2013), oltre a numerose altre nomination, tra cui quella per miglior attore protagonista in Gangs of New York, dove interpretava il terrificante “Bill il Macellaio”.

È ciò che si definisce un method actor, un attore che si immerge completamente nei suoi personaggi. Capace di ascoltare musica rap e hard rock per ore per mantenere un mood aggressivo quando il ruolo lo richiede, pretende di essere chiamato con il nome del suo personaggio per tutta la durata delle riprese. Fuma, ingrassa e dimagrisce per trasformare il suo corpo in funzione del copione.

method actors sono tra gli interpreti più autentici e estremi, basti pensare a Marlon Brando o Robert De Niro. Tuttavia, questo approccio richiede una grande forza mentale, perché oscillare tra realtà e finzione, soprattutto in ruoli drammatici o inquietanti, può avere conseguenze devastanti. Tutti ricordiamo la tragica vicenda di Heath Ledger, ucciso dal suo stesso Joker.

È proprio per sfuggire a questa costante altalena emotiva, fisica e spirituale che alcuni attori sentono il bisogno di allontanarsi. Così ha fatto Daniel Day-Lewis che, prima di compiere quarant’anni, aveva già vissuto molte vite, alcune complicate, tutte straordinariamente intense. Firenze diventa la sua scelta: un’esistenza da apprendista artigiano, una bicicletta, un quartiere bohemien, cappotti ampi e maglioni consunti.

Una routine semplice: portare il figlio all’asilo, arrivare in bottega prima delle 9, pulire il laboratorio a fine giornata – compito che si offrì volontariamente di svolgere fino all’ultimo giorno di lavoro. A volte chiedeva un permesso il venerdì pomeriggio per far visita al figlio maggiore a Parigi.

Chi lavora con le proprie risorse intellettuali – artisti, ma anche alcuni professionisti e imprenditori– è spesso alla ricerca della pace interiore. Alcuni la trovano nello sport, altri nella meditazione, nella preghiera o nel volontariato. Altri ancora ricorrono ai farmaci. Pochi si dedicano al lavoro manuale nel tempo libero: la riparazione di moto o auto d’epoca, la falegnameria, la manutenzione domestica. Matthew Crawford, nel suo libro Il lavoro manuale come medicina dell’anima, ha esplorato proprio questo concetto. Non sorprende, quindi, che Daniel Day-Lewis abbia cercato la stabilità attraverso una routine quotidiana e il lavoro con le mani, attività che gli riusciva naturale.

L’artigianato contiene in sé l’arte, lo conferma anche l’etimologia della parola stessa. La cura di ogni gesto, il controllo dell’intero processo, trasformano il lavoro manuale in una pratica quasi spirituale. Una vera e propria forma di meditazione.

Durante quei dieci mesi, Daniel Day-Lewis riuscì quasi completamente a tenere Hollywood e il mondo dello spettacolo fuori dalla sua vita. Tuttavia, ci furono tre episodi degni di nota. L’ultimo segnò la fine della sua esperienza fiorentina e il ritorno al cinema.

Il primo a interrompere la sua quiete fu Sting, che lo attese prima di un concerto a Firenze, perché Daniel non voleva lasciare incompiute le pulizie in bottega. L’ufficio stampa giustificò il ritardo con “problemi tecnici”, e i giornalisti riportarono fedelmente la versione ufficiale.

Poi arrivò Madonna, che lo invitò a cena. Ma Daniel chiese a Stefano Bemer di inventare un alibi credibile, e così anche la popstar più famosa del mondo fu accompagnata senza clamore alla porta della bottega.

Infine, Martin Scorsese. Il regista passò tre mattinate nel laboratorio di Bemer, cercando di convincere Daniel Day-Lewis a interpretare “Bill il Macellaio” in Gangs of New York. Lui, mentre ascoltava, continuava a martellare, piegare, cucire. Alla fine, fu la moglie, Rebecca Miller, a persuaderlo ad accettare quello che sarebbe diventato uno dei film più celebri di Scorsese, girato in gran parte a Cinecittà.

Così, nel 2001, dopo un’assenza di oltre quattro anni dalle scene – l’ultimo film era stato The Boxer del 1997 – Daniel Day-Lewis tornò al cinema. Seguì una serie di film straordinari e il sodalizio con Paul Thomas Anderson, che lo portò a vincere due Oscar come miglior attore protagonista.

Non risulta che, da allora, sia più tornato a Firenze per un periodo più lungo di una semplice vacanza e, oggi, si sposta tra le sue residenze di Annamoe in Irlanda e Manhattan a New York. Due luoghi all’opposto, quasi a ricercare l’energia della città dopo i mesi di pace nella campagna irlandese, per poi volervi ritornare una volta assorbito il fermento culturale e artistico della Grande Mela.

A uno sguardo superficiale, Daniel Day-Lewis potrebbe sembrare eccentrico, ma questa sarebbe una lettura riduttiva e probabilmente errata. Forse l’aggettivo che lo descrive meglio è intenso, proprio come i suoi personaggi. La sua eleganza, nelle rare apparizioni pubbliche o nelle foto scattate di nascosto, rivela la profondità di una mente in costante movimento, alla ricerca di equilibrio nella bellezza dell’ordinario e nella pace che deriva dall’arte e dal lavoro manuale.

Daniel Day-Lewis è anche un motociclista e un amante delle auto d’epoca, al punto da aver guidato una Jaguar XK 120 del 1953 alla Mille Miglia nel 2013. Di recente, è stato fotografato sul set in sella a una vecchia Honda Africa Twin. Personalmente, lo vedrei meglio su una moto dal carattere più deciso, come una Triumph Pre-Unit o un’Harley Davidson Knucklehead. Ma probabilmente mi sbaglio, perché con Daniel Day-Lewis l’unica certezza è la sua imprevedibilità.

Pier Francesco Verlato

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