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Il piatto unico. La California on the road un inverno

26 marzo 2018 by Rust and Glory Leave a Comment

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Los Angeles vista dal Getty Center

 

di Pier Francesco Verlato

Tutto e niente. California.

Nord e Grande Sur. Oceano e deserto. Bentley e flower power, white trash e imprenditori cinesi dalla mente lucida, troppo lucida.

Le donne swaroskiane dagli zigomi lustri e lo sguardo al botulino. I poeti beat, i loro figli e i loro nipoti: torace da tisici e capelli alla Monterrey ’67.

In California ci sono due poli che non sono due città. Sono due modi differenti di leggere ciò che rimane tra le pieghe della storia, che alla fine è la storia stessa. Non quella narrata sui libri ma i fenomeni sociali che messi insieme fanno la storia: le lotte, la controcultura, come si guadagnano i soldi e come si spendono in base a ciò che ciascun polo – non città – ha da offrire.

San Francisco è il polo freddo, intellettuale e riservato. Decisamente freak: geek-freak, hippie-freak, cosmo-freak. Los Angeles è il polo caldo, sbragato e lascivo. Decisamente freak: love-freak, party-freak, art-freak. Ciò che gravita intorno ai poli sono sfumature, più o meno marcate, dell’uno o dell’altro, oppure commistioni delle virtù di entrambi.

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Down and out in Haight Ashbury

 

Lo stordimento a San Francisco è implacabile e dopo 5 giorni su e giù per la città ne comprendo le ragioni:

il freddo: ti attanaglia giorno e notte, ma è un freddo diverso dal nostro. È un freddo che ti raffresca il cervello, come se respirando innescassi un impianto di aria condizionata,

le discese ardite e le risalite, ché anche se Battisti non si riferiva a San Francisco scolpiscono il panorama cittadino creando un’armonia – unica al mondo – di colline tondeggianti e geometrie taglienti,

il profumo di marijuana che tutti consumano per le strade, a prescindere da dove ci si trovi e dall’abito del monaco fumatore. Va da sé che fuori dalla porta di Amoeba (la mecca mondiale dei dischi, film, memorabilia…), sia ha la percezione di trovarsi al centro di un giardino botanico in fiamme, mentre nel cuore del Financial District l’odore di tombini e hot-dog è quello di una qualunque città d’America. Per fortuna viene in aiuto la brezza dell’Oceano che, a San Francisco, soffia sempre dalla parte giusta innescando vortici sottovento a chiunque si accenda una canna e deliziando gli avventori poco lontani.

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Il mitico crocevia tra le strade Haight e Ashbury

 

Haight Ashbury – lo storico quartiere che i Rolling Stone eleggevano a dimora quando nei gloriosi ’60 e nei lustrinati ’70 trasvolavano l’oceano – è l’epicentro della scena hipster-rock cittadina. Da quando, più di cinquant’anni fa, sono comparsi gli hippie, quel mitico incrocio ha accolto concerti e sit-in ispirati alla creatività letteraria e alla giustizia sociale. I Grateful Dead e i Jefferson Airplane sono – fin dagli inizi – i padroni indiscussi di Haight Hashbury ma, oltre agli artisti local e ai blusmen satanici di Sua Maestà, altri nomi della controcultura hanno calcato quei marciapiedi e quei locali: Jimi Hendrix, Bob Dylan, Joan Baez, solo per citarne alcuni. La storia d’amore tra la Baez e Steve Jobs – un hippie prestato al business e fondatore di un’azienda di discreto successo – dimostra che arte e innovazione si influenzano a vicenda e che il mondo dell’impresa può ricavare i migliori spunti dagli outsider, da coloro che con esso non hanno niente a che vedere. Ci si chiede come una città così tollerante, ricca di persone da ogni parte del mondo che stanno a loro volta – tramite le loro menti geniali – facendo arricchire il resto della popolazione, possa essere rappresentata da un cialtrone arancione e ignorante come l’attuale presidente degli Stati Uniti. Lo spirito della città è tutto in due parole scritte da un homeless* su un pezzo di legno: Fuck Trump. Con estrema generosità, per un dollaro (varrebbe molto di più), l’homeless dalla sintesi perfetta ti consente di farti fotografare insieme a lui mentre sfoggia un’aria incazzatissima e il dito medio più irriverente del pianeta. Ne approfitto, ostentando a mia volta la faccia da sberle e il re dei diti medi.

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Il boardwalk di Santa Cruz è uno spaccato perfetto di California: Corvette, Mustang, rollercoaster e tavole da surf

 

Il viaggio prosegue verso sud, dove oltre alla tappa-omaggio ai poeti, ai cieli grigi e alle case autocostruite sulle scogliere di Big Sur, inciampiamo per sbaglio sull’insegna del Madonna Inn, il motel più bello e kitsch di sempre realizzato nel 1958 da un pazzo il cui nome è tutto un programma: Alex Madonna. Me lo immagino, l’allora giovane Alex, contornato da aspiranti playmate dai capelli cotonati e il trucco pesante, alla guida di una Ford Thunderbird rosa fumando una sigaretta col bocchino. Resta il fatto che il motel in questione è un capolavoro: uno chalet svizzero di proporzioni smisurate, con tutti i cliché degli chalet svizzeri moltiplicati all’infinito. I bagni sono degni di un museo: il pisciatoio per gli uomini è a forma di grotta e, una volta allacciata la patta, una cascata d’acqua scende a ripulire le pietre rilasciando un profumo di violette appena dischiuse.

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Happy family in hippy van a San Francisco

 

Ci fermiamo per la notte a Santa Barbara, una cittadina sull’oceano dall’architettura ispanica e dalle influenze Beverly-Hillsiane: il set perfetto per un film di Nancy Meyers. Per nulla maledetta, troppo poco intrigante. I surfisti di Santa Barbara hanno l’aria da bravi ragazzi: ciuffo biondo-California e zero tatuaggi. Meglio riprendere la Highway 1 verso Los Angeles.

Appena varcati i confini della contea emerge dalle macchine in doppia fila un plotone di ragazzi e ragazze a piedi nudi, muta nera e tavola da surf sotto il braccio. Davanti a loro, l’Oceano Pacifico. Alle loro spalle, il Neptune’s Net, ristorante-crocevia reso famoso dalla Hollywood della nostra gioventù: Point Break e Fast ‘n Furious. Agguantiamo la macchina fotografica alla ricerca del surfista perfetto sull’onda perfetta e, una volta soddisfatto il nostro istinto predatorio, prendiamo possesso del patio del Neptune’s Net in compagnia di una piana di calamari fritti e di una Bud Light ghiacciata. Missione compiuta.

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Neptune’s Net, ovvero un set cinematografico tra Malibu e Ventura

 

Dopo pochi chilometri, l’immensità di Los Angeles si schiude in tutta la sua perdizione. Santa Monica, Venice, Hollywood e la San Fernando Valley: tutto troppo vivido, materiale, tangibile per darci realmente conto che, in quel momento, siamo anche noi una parte del tutto. Una raffica di déjà vu mi offusca la mente: i viaggi precedenti, i film a centinaia e le serie TV. Eppure, esserci un’altra volta consente di non fermarsi all’apparenza di una città che non è una città, popolata di persone che tanta importanza attribuiscono proprio all’apparire. È come degustare un generoso piatto unico – Mexican style – evitando accuratamente lo spocchioso ristorante parigino nel quale, terminato un antipasto pidocchioso, ti ritrovi con una fame da lupi ma non ti è nemmeno consentito di guardare il menù**.

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BMW R51 di fronte a Neptune’s Net

 

Los Angeles è lo show business: il cinema e tutto ciò che vi gira intorno. È creatività sfrenata e venduta al resto del mondo come solo l’America sa fare: con un marketing d’acciaio e margini colossali. È soldi, tanti soldi (anche se non così tanti come nella San Francisco delle nuove tecnologie). Soldi in mano ai creativi che vanno in giro in Tesla vestiti come straccioni. Soldi in mano agli avvocati, ai contabili e ai dentisti dei creativi in questione: persone rispettabili la cui terza moglie, straripante silicone e con un più che probabile problema di cocaina, si è da poco resa conto di provare un desiderio d’irrefrenabile libidine verso il fidanzato diciottenne della figlia sedicenne. Venice è il quartiere più ambito del momento, dove le case sui canali (la copia dei canali veneziani, tolti i palazzi e aggiunte le abitazioni di design) – poco lontane dalla Venice Beach del surf e della droga di strada – costano milioni di dollari e sono diventate il rifugio di una comunità di sceneggiatori in pensione, chirurghi plastici sulla cresta dell’onda e soon-to-be archi-star. In un momento di macabra lucidità, nel mezzo di una giornata chiarissima, decidiamo di visitare Hollywood Forever, il cimitero reso celebre da tante pellicole, per portare un saluto commosso al recente suicida Chris Cornell, la “voce della nostra generazione” come saggiamente inciso sulla sua lapide minimalista. Accanto, la statua grandiosa di Johnny Ramone sul cui piedistallo campeggiano le dediche degli amici Eddie Vedder e John Frusciante. Chris sotto una pietra, Johnny dentro un altare: imparo che la grandezza di un artista non è proporzionale all’imponenza del suo tumulo.

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Easy Rider nei nostri cuori

 

Una scena ci colpisce particolarmente: una signora di grande fascino, sui sessanta, seduta su una sedia da campeggio accanto alla tomba di un giovane attore morto a ventott’anni. Legge un libro nascondendo elegantemente il suo dolore e abbronzandosi – senza cercarlo – sotto il sole caldo della California.

L’ora tarda del pomeriggio ci suggerisce un cocktail a West Hollywood. Dopo la sfilata davanti ai locali-icona Viper Room***, Rainbow e Whiskey a Go Go (non vale la pena fermarsi: la programmazione dei giorni tra Natale e capodanno fa schifo), lasciamo la macchina al valet dello Chateau Marmont. Dopo le cerimonie di accoglienza che ti aspetti di ricevere in un castello della Loira posizionato tra la Sunset Strip**** e Rodeo Drive*****, ci accomodiamo su un divanetto sul quale penso che anche John Belushi possa aver bevuto un cocktail prima di iniettarsi quella dose fatale di speedball nella sua stanza, proprio in quell’albergo. Vale la pena ricordare che allo Chateau Marmont è stato dedicato da Sofia Coppola un intero film. Guardatevi Somewhere. Munitevi di caffè.

La città del sesso e dei segreti riserva delle chicche architettoniche che da sole valgono il biglietto aereo: tra tutte le migliaia di ville da bava alla bocca, quella che ci lascia più di stucco è il Chemosphere sulla Mulholland Drive, una casa fatta a disco volante e sorretta da pilastri risalente alla metà del secolo scorso. Per accedervi, abbiamo dovuto percorrere una strada privata: bava alla bocca e terrore di essere rapiti da futuristici marziani anni ’50.

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Mercedes 550SL a Palm Springs

 

Questo viaggio ci ha riservato tante altre soprese: da Palm Springs e il culto del mid-century al negozio-tempio di strumenti musicali di proprietà di Ben Harper, dallo splendido quartiere di Castro a San Francisco ai porti di Orange County, degni di un Hemingway alla massima foltezza della barba.

In California, le contraddizioni d’America si fanno più vive, più colte, più affascinanti. Contestualizzare tutto ciò che si incontra diventa un’abitudine irrinunciabile. In effetti, la nostra intera quotidianità deriva da quello strettissimo lembo di terra ai margini del continente: i computer in tutte le loro forme (da poco anche le auto computerizzate), la musica e l’innovazione, il cinema e la protesta. La California è il regno della creatività dall’inizio del secolo scorso e, fin dagli anni ’80, la terra promessa della tecnologia. Viaggiare su quella costa – o meglio viverci – significa trovarsi dove tutto succede per primo, tra stimoli continui dai quali non possono che derivare, in presenza di terreno fertile, intuizioni geniali.

P.s. L’ultima notte ci siamo svegliati alle 2.40 grazie alla magnitudo 4.4 di un terremoto con epicentro a Berkeley, nella baia di San Francisco, sede di una delle principali università degli Stati Uniti. Probabilmente qualcuno aveva appena avuto un’intuizione straordinaria.

 

“It’s hard to believe

That there’s nobody out there

It’s hard to believe

That I’m all alone

At least I have her love

The city she loves me

Lonely as I am

Together we cry”

Red Hot Chili Peppers, Los Angeles, 1991

 

“Fuck you

I won’t do

what they tell me”

Rage Against the Machine, Los Angeles, 1992

 

* Letteralmente “senza casa”. Di certo, un’accezione più tollerante e aderente alla realtà della nostra disprezzabile traduzione “barbone”.

** mica vorrai farla aspettare la coppia di settantenni, clienti abituali. Hanno diritto al loro pidocchioso tavolino e, poi, parlano francese meglio di te.

* Il Viper Room, il cui ex proprietario è Johnny Depp, fu teatro della morte del 23enne River Phoenix, l’attore più promettente della sua generazione.

** Il tratto di Sunset Boulevard dove hanno sede tutti i club più storici e trasgressivi della storia del rock.

*** La via dello shopping delle signore bionde e di plastica, nel cuore di Beverly Hills

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