Testi e foto di Pier Francesco Verlato.
È un sabato memorabile di cieli blu intenso e cime candide di neve, dopo una settimana di nebbie pesanti, smog incollato ai parabrezza e la Vespa che tenta di sdraiarsi a ogni accenno di strisce pedonali.
Una mattinata di autentica grazia che decido di trascorrere a Venezia. Una di quelle mezze giornate, due o tre all’anno, in cui mi ritiro in una città del cuore e cammino svelto, immortalando tutto ciò che voglio, indisturbato, anonimo e ignorato: la condizione ideale dell’essere umano.
L’intenzione è quella di sfruttare la luce morbida dell’alba, quel velo di sole che accarezza i palazzi, per scattare foto degne di Meridiani o Condé Nast Traveler (almeno nel mio immaginario), di catturare lo specchio increspato della Laguna mentre accoglie i primi raggi del giorno, di rilassarmi – tra un’inquadratura perfetta e il successivo angolo di surreale bellezza – con una frittella alla crema nella storica pasticceria Tonolo.
Perdo il treno e mi consolo con un caffè ristretto al pestilenziale bar della stazione. Il Regionale, l’unico disponibile a quell’ora, è lento come un carretto marocchino a propulsione asinina, ma arrivo finalmente alla stazione di Santa Lucia, la linea di partenza per milioni di avventori alla ricerca di un selfie nell’isola più bella del mondo.
Intuizione numero 1
È qui che noto qualcosa… Un’idea che mi ha sempre accompagnato, almeno negli ultimi vent’anni di diffusione dei tessuti tecnici per i capi d’abbigliamento di tutti i giorni, ma che non si era mai trasformata in un pensiero compiuto. Serve la macchina fotografica per rendermi conto che non esiste un’unica inquadratura a Venezia scevra di un piumino* – o più piumini – giallo fluo, verde menta o fucsia esplosione nucleare.
Provo a scattare, ma nulla: una coppia di asiatici Patagonia mi finisce nello scatto. Raggiungo una piazzetta (o campo, in lingua veneziana) abbastanza vuota, regolo l’esposizione, metto a fuoco e una famigliola North Face si palesa davanti al mio obiettivo. Parlano un inglese pecoreccio: probabilmente sono irlandesi.
Eccomi allora in cima a una scaletta dalle parti della Scuola di San Rocco. Un ponte poco lontano mi offre il beneficio di un passaggio pedonale al di sopra e, allo stesso tempo, di un transito continuo di gondole al di sotto. Come se non bastasse, un raggio di sole sbatte esattamente sulla tesa dei cappelli dei viandanti e sui cappotti lunghi dei passeggeri in gondola (sempre nel mio immaginario). In realtà, non faccio in tempo a regolare le funzioni della Canon che, ai piani alti, si palesa una famigliola Salewa dalle infinite velleità selfistiche mentre, in acqua, una coppia di sposini silenziosi ostenta una costosa preferenza per la rediviva Napapijri. Lei tiene il cellulare in mano e il ditone scorre ossessivamente dal basso verso l’alto. Direi che non potrebbe esistere foto peggiore e, anche questa volta, ripongo la Canon nella ladra* del Barbour.
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Intuizione numero 2
Di lì a poco dovrò riprendere il treno, ma ecco che si accende un’altra lampadina nella mia testa: visitare il mio posto segreto preferito sul Canal Grande – un hotel, ristorante e concept store assolutamente pubblico – e farmi una chiacchierata con il direttore, una persona che gli amici in comune mi hanno descritto come interessante e simpatica. Non faccio in tempo a stupirmi di tutta questa astuzia (un’idea, buona o cattiva, o una singola deduzione logica al giorno sono merce preziosa, figuriamoci due) che sto già varcando la soglia del mio luogo-segreto-preferito-ma-in-realtà-aperto-a-tutti. Il futuro amico arriverà più tardi quel giorno, e l’attesa si rivela un’occasione perfetta per sfamarmi con un toast completamente ricoperto di salsa rosa e per degustare l’Americano più famoso di Venezia. Sono le 11:15 del mattino e qualunque cocktail, in ogni parte del mondo, è più buono se consumato prima di mezzogiorno, anche perché di solito inaugura lunghe e gloriose giornate e non anticipa, come in questo caso, un ritorno sul Regionale.
Finalmente, tra le mura del palazzo sul Canal Grande, i piumini lasciano spazio a cappotti dal taglio classico, a qualche giacca in lana cotta di rimembranze austro-ungariche, a cappelli Borsalino perfettamente indossati. Troppo tardi però: la macchina fotografica si porrebbe in contrasto con il privilegio di godere di quei pochi attimi in un luogo straordinario, e anche con il tasso alcolico in vertiginoso aumento a ogni sorso del signature cocktail della casa: l’Americano, per l’appunto. E poi, troppa luce a quell’ora per ottenere scatti decorosi.
Il futuro amico arriva, le parole fluiscono come l’acqua increspata del Canal Grande, il Regionale parte mentre sgomito tra i piumini sui ponti e nelle calli per non perdere anche quello successivo.
Le foto sono poche e le potete vedere qui.
Sono solo le 13:00 di un’indimenticabile giornata.
* orrendo capo tecnico giustificabile solo ad altitudine superiore a 5.000 metri.
**nelle giacche da caccia, tasca per la selvaggina.
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