C’è chi commisera i solitari, chi al ristorante, al cinema, al teatro, trova malinconica la figura di chi siede da solo, come se la compagnia sempre e a tutti i costi fosse una necessità, una norma, una medicina contro una vita di tristezza. Ma io no, io ho sempre provato una strana invidia per quella solitudine: un’ammirazione quasi viscerale, un’idea di libertà, di audacia. “Poveretto, è solo”, mormora chi non capisce che, in quel momento, forse lui è l’uomo più libero al mondo. “Ma lo sai che se la sta godendo?” rispondo io, col sorriso di chi intravede un piccolo segreto.
Mi affascina soprattutto chi mangia da solo, in un ristorante degno di chiamarsi tale, un posto dove non si va per sopravvivere ma per assaporare ogni dettaglio, ogni angolo, ogni riflesso. Un ristorante vero è un’esperienza totale: non è solo una questione di cibo. È la luce che filtra dalle finestre, la scelta delle posate, l’equilibrio tra i quadri alle pareti. È come entrare in un mondo pensato, costruito, creato per accoglierti con la stessa cura con cui un amico aprirebbe le porte di casa. E per godere di tutto questo, bisogna essere soli.
La scelta del tavolo è fondamentale. Non accetto che il cameriere me lo imponga; il tavolo perfetto è sempre quello d’angolo, in fondo alla sala, un piccolo rifugio da cui posso vedere tutto. Da lì, studio gli altri: i loro gesti, le espressioni. Immagino le loro vite in base a alcuni dettagli: la montatura degli occhiali, il taglio della giacca e dei pantaloni. Un saluto accennato a qualcuno, un sorriso a chi si avvicina: sono lì ma anche distante, come un osservatore che si concede il lusso di non partecipare.
Il mio pasto inizia sempre con un calice di vino rosso. Non quel Prosecco brillante e frizzante che si offre agli ospiti distratti ma un vino denso – un Valpolicella o un Merlot – qualcosa di scuro, che sappia parlare, che apra la mente e faccia sentire il suo peso. Lo assaporo a stomaco vuoto, ogni sorso una carezza, un inizio lento e rassicurante, che mi prepara alla mezz’ora di quiete che ho davanti. Intanto, osservo tutto: il viavai dei camerieri, i sorrisi falsi, le risate vere, gli abiti delle signore che sembrano usciti da un quadro, le scarpe lustre degli uomini che si stagliano sul pavimento di terracotta.
La musica è un sottofondo inevitabile, un jazz che si mescola a melodie pop dimenticate, come se il tempo si fosse fermato in un’epoca che nessuno vuole davvero lasciare andare. Quel senso di immobilità mi piace: una piccola pausa sospesa tra la mia vita e il resto del mondo.
Ordino sempre il fuori menù. È un privilegio, un tacito accordo tra me e il cameriere che conosce i miei gusti senza bisogno di rassicurarmi. Nella maggior parte dei ristoranti, il fuori menù è un rischio, un modo gentile per nascondere l’avanzo del giorno prima. Ma qui no: qui, il fuori menù è un regalo, una sorpresa che mi attende. Non ho bisogno di altro vino: mi basta quel calice iniziale, perché, dopo tutto, è un pranzo qualunque, un giovedì qualunque.
Arriva il caffè e, mentre lo sorseggio, una melodia risuona nella mia mente: forse è Sinatra, forse è Michael Bublé, o semplicemente il suono dei miei pensieri che trovano finalmente un po’ di pace. Poi, il silenzio, e quel biscotto intriso di caffè che si spezza sotto i denti: una dolcezza amara, una parentesi che chiude un momento di serenità assoluta.
Quando è il momento di andare, mi alzo con calma e accosto la sedia. Un cenno ai vicini, un sorriso discreto. “Arrivederci” sembra dire il mio viso, mentre mi allontano verso l’uscita.
Il telefono? L’ho lasciato in macchina. Ma la mia vecchia Canon, quella sì, la porto sempre. La tengo stretta, silenziosa e fedele, pronta a catturare un dettaglio, uno sguardo, un riflesso di luce sul bicchiere. Perché certi momenti meritano di essere fermati, anche se li rivivrò altre volte.
Pier Francesco Verlato
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