Uno Nove Nove Uno. L’anno che cambiò per sempre il rock

Ci sono canzoni che sono inni generazionali, melodie che, ovunque ci troviamo, non possiamo fare a meno di mimare con la voce, o anche solo nella mente. Non-melodie che ora come allora ci fanno saltare come grilli e pogare come folli, basta essere nel posto giusto. Il 1991 è l’anno in cui tutto comincia, almeno per me. Vorrei avere la possibilità di riviverlo, quell’anno, di respirare nuovamente le atmosfere tra il dark e il cappellone, tra la joie de vivre degli splendidi ’80 e la paura dell’Aids nella quale il mondo occidentale era sprofondato nel frattempo. Vorrei essere teletrasportato nel 1991- Doc aiutami – e avere venticinque anni, non gli undici di allora, non la mia Estate a suon di Roxette e Festivalbar.

Quei 12 indimenticabili mesi li avrei fatto miei di lì a poco, negli anni del liceo, quando i Nirvana di Kurt Cobain erano diventati il gruppo cult per eccellenza, pur essendosi polverizzati anni prima all’esplosione di quella pallottola suicida. Quando i Pearl Jam erano la causa di infinite liti con i genitori per strappare loro il permesso per un concerto e la trasferta a Milano avveniva nella Panda scassata di un fratello maggiore. Quando il Fuck You I Won’t do What You Tell me targato Rage Against the Machine e urlato al Totem Club ogni santo sabato notte era il pretesto per non interagire con nessuno al pranzo di famiglia della domenica, e farsi etichettare come un depresso asociale dagli amorevoli zii.

Venendo alla musica, alla mia dea, alla fonte di ispirazione per eccellenza, vale la pena capire che cosa è cominciato nel 1991, ciò che nel frattempo si è schiantato contro il muro delle mode musicali, ciò che invece dura ancora oggi.

Il grunge. I Nirvana sono il grunge. Kurt Cobain è il grunge. Forse Cobain ci era nato con la camicia di flanella e lo sguardo d’angelo, con quel genio letterario e la maledizione nelle viscere. Forse Cobain è vissuto per provare al mondo che l’arte esiste, che le persone buone e sensibili ci saranno sempre anche se non sempre avranno la meglio. Il secondo album dei Nirvana, Nevermind, è geniale nel titolo, nella cover (nata anch’essa da un’idea di Cobain) e in pezzi come Smells like Teen Spirit, In Bloom e Come As You Are che sanciscono 59:23 minuti di rabbia e consolazione. Alzi la mano chi non si ricorda le melodie di queste tre canzoni. Metta giù la mano e torni all’Instagram della Ferragni.

L’indimenticato Kurt Cobain

Il revival del funk: il crossover tra soul, psichedelia, punk, metal e rap.  Welcome to mainstream, Red Hot Chili Peppers. Avevo la cassetta di Blood Sugar Sex Magic, consumata a forza di Walkman e di mangiacassette della Volkswagen Polo di mia madre. Lo conosco a memoria quell’album, ho chiesto al dj di suonare Give it Away al mio matrimonio. Non la canzone più romantica al mondo ma tutto questo significano per me, ancora oggi. i Red Hot Chili Peppers.

I Pearl Jam e il loro album di debutto, Ten, è un diamante scintillante da ogni lato lo si guardi. Brilla e continua a brillare sotto ogni luce. Ten ha spedito i Pearl Jam sulla luna, li ha riportati con i piedi ben piantati sulla Terra e ha battezzato il fenomeno Eddie Vedder, uno che parla con la gente come se veramente la conoscesse e probabilmente è così. Musicista dei solitari e della società, idolo delle folle con i suoi stagediving leggendari, acustico come un Dylan pre-‘64 e intenso come il più mistico dei Leonard Cohen. Alive è il pezzo per eccellenza di quell’album. Bastava quello e una ghost track per generare il più promettente degli esordi. Invece, ecco Black, la ballata più sospirata, verseggiata e vissuta del decennio e Jeremy, testo strappalacrime e chitarre grunge vere. Eddie Vedder mi ricorda lo Springsteen di Nebrsaska e gli auguro di continuare a cantare e suonare le “cose giuste” per molti anni ancora. Vale la pena ricordare ai più giovani che uno splendido Eddie post-adolescente fece una parte nel cult-movie del 1992 Singles di Cameron Crowe. Guardatelo, e poi riguardatelo dopo un mese. E dopo un anno.

Eddie Vedder

I REM non li ho mai veramente capiti, non sono mai stati il mio tormento ma nemmeno il mio piatto forte. Casomai un dolcetto, un dessert zuccherino nelle melodie e amarognolo nelle liriche. Certo non posso dimenticarmi di Out of Time, l’album del 1991 che con Losing my Religion ha inciso il tatuaggio “REM” su chiunque negli anni ‘90 avesse dieci, venti o trent’anni. È bellissimo sentirla ancora alla radio quando qualche benemerito incaricato alla programmazione musicale la inserisce tra Ed Sheran e gli One Direction. Shiny Happy People fa lo stesso effetto: un cocktail leggero da assaporare dopo il lavoro, il cui gusto di gelato al marshmallow ci soddisfa in piccole quantità e fatica ad essere dimenticato.

I Primal Scream. Qui siamo in pochi ragazzi, lo so. Forse alcuni li ricorderanno per Some Velvet Morning, pezzo del 2000 che ospita la voce di Kate Moss e il relativo video che la ritrae in babydoll mentre si agita graziosamente. Ora, prima di andare su Youtube a sbirciare la Moss in babydoll, ricordatevi anche di Loaded, pezzo contenuto nell’album Screamadelica (ovviamente, 1991), e della perfetta fusione di rock e elettronica, di suoni caldi e attitudine ribelle. E quell’intro “We wanna get loaded, we wanna have a good time” che è la voce di Peter Fonda in una scena di The Wild Angels, film violentissimo del 1967, suona come una dichiarazione d’amore al cine-nerdismo che troppo spesso convive con la passione per il rock.

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Peter Fonda in una scena di The Wild Angels

Gli U2. Il loro album del 1991, Achtung Baby, chiude un ciclo: quello della creatività. Oneè bellissima e perfetta per i campi scout, dove il capo-con-chitarra può finalmente sfoggiare un minimo di sex appeal per perderlo subito dopo aver vibrato l’ultimo accordo.

È stato un anno di creatività eccezionale il 1991, di tecnica e sperimentazione, di poesia e disperazione. C’è chi ha sancito la propria immortalità e chi l’immortalità l’aveva già acquisita. C’è chi ha inciso la propria tacca sull’albero del rock e verrà ricordato per un disco uscito proprio quell’anno. C’è poi l’altra metà dell’universo: gli spettatori. L’arte non esisterebbe se non ci fosse chi è in grado di apprezzarla, resterebbe un esercizio stilistico fine a sé stesso. C’è poi chi, come nel mio caso, è rimasto a guardare non capendo bene che cosa stesse accadendo perché impegnato nei primi strusciamenti con le compagne di classe al ritmo dei Roxette. Se Doc mi riportasse mai al 1991, spero di non commettere gli stessi errori. Con le compagne di classe si intende.

Pier Francesco Verlato

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