Elspeth Beard. Il mondo in moto, lontano dagli sguardi

di Riccardo Mandurino, da una chiacchierata amichevole con Elspeth.

Nel 1982, Elspeth Beard aveva 23 anni e un’idea abbastanza folle per il tempo: fare il giro del mondo in moto. Non per una scommessa, né per una causa, né per diventare famosa. Per capire se era possibile nascere una seconda volta. E per dimostrare a quegli amici che ridevano del suo progetto, che nulla l’avrebbe fermata.

La moto era una BMW R60/6, anno 1974. Nessuna preparazione estensiva, nessun supporto tecnico. Due borse in alluminio autocostruite, una macchina fotografica, un paio di stivali e una voglia feroce di andare. “Non sapevo bene cosa stessi facendo. Ma sapevo che dovevo farlo.”

Viaggiare prima di Google

All’inizio degli anni ’80, viaggiare in moto era una cosa molto diversa da oggi. Non c’erano smartphone, app di navigazione, sistemi di prenotazione online. I documenti erano su carta, i confini reali e le distanze pesavano. Ma soprattutto, la moto era parte integrante del tuo passaporto.

“Ogni volta che entravi in un Paese, il mezzo veniva registrato sui tuoi documenti. Non potevi lasciarlo lì e andartene. Per uscire, dovevi uscire con la moto.”

Questo significava una cosa: niente scorciatoie. Qualunque cosa succedesse, dovevi arrangiarti. Niente soccorso stradale, niente voli di ritorno. Solo te, la tua moto, e l’eventuale generosità di uno sconosciuto.

“Se qualcosa andava storto, dovevo sistemarlo da sola. Non c’era scelta.”

Questa roba, dice, ti entra in testa. Prima ti spaventa, poi diventa normale. E a quel punto cambia tutto: ti accorgi che te la puoi cavare quasi sempre. E che non c’è motivo di avere paura.

Non è un discorso da supereroi. È solo esperienza. Problema dopo problema, chilometro dopo chilometro, inizi a fidarti di te. E questo, una volta che succede, non te lo toglie più nessuno.

Il mondo in 56.000 chilometri

Elspeth attraversò l’America da New York a Los Angeles, poi l’Australia, dove lavorò mesi per mettere da parte abbastanza soldi da proseguire. Infine, il Sud-est asiatico: Indonesia, Malesia, Tailandia, India, Pakistan, Iran, Turchia. Il ritorno fu via Europa.

In totale: due anni e mezzo in viaggio, 56.000 chilometri percorsi, decine di Paesi attraversati.

“I momenti difficili non sono mancati. Ma non ho mai pensato di tornare indietro. Non era proprio contemplato. Se fossi voluta tornare a casa, avrei dovuto guidare.”

Uno dei passaggi più duri fu quello attraverso il sud dell’India, dove percorse strade piene di buche, sotto un caldo asfissiante, spesso senza punti di riferimento. In Tailandia, ricorda un rispetto tutto orientale per le figure femminili anziane:

“In certe famiglie era la nonna a comandare. Una cosa impensabile, allora, da noi.”

A volte le ci volevano giorni solo per trovare un’officina, o un pezzo di ricambio. Ma la moto ha sempre tenuto. O quasi.

“Era una BMW, e quello ha fatto la differenza. Semplice, robusta, senza elettronica. E se qualcosa si rompeva… trovavi sempre il modo di ripartire.”

Tornare, senza essere davvero tornata

Una volta a Londra, Elspeth pensava — legittimamente — di trovare almeno un po’ di attenzione. Niente di più sbagliato. La stampa non vollero parlare di lei. Le riviste specializzate neppure.

“I giornali di moto erano ambienti molto maschili. Per loro l’idea che una ragazza potesse aver fatto tutto questo da sola era inaccettabile. Hanno fatto finta di niente.”

Anche gli amici e la famiglia non colsero del tutto la portata dell’impresa. La distanza geografica si era trasformata in distacco emotivo, mentale, spirituale. Elspeth cercava di raccontare le notti passate sotto le stelle in Pakistan, i guasti nel deserto, la fatica di spingere la moto per chilometri. Ma nessuno capiva davvero.

“Dopo un’ora che raccontavo, gli occhi si spegnevano. Non riuscivano a immaginare. Non riuscivano a entrare in quel mondo.”

Si sentiva un po’ come un’aliena atterrata per sbaglio nella vita di prima. Le stesse strade, le stesse persone, lo stesso paese — ma lei era cambiata. E gli altri no.

“È come se un astronauta cercasse di spiegarti cosa si prova sulla Luna. Lo ascolti, ma non puoi capirlo. È troppo lontano da quello che conosci.”

La torre dell’acqua

A quel punto, Elspeth fece un’altra scelta poco ortodossa. Da giovane architetto, decise di comprare un’ex torre dell’acqua vittoriana abbandonata. Nessun permesso edilizio, nessun progetto esistente. Solo un cilindro di mattoni alti, vuoto e in rovina.

“Non avevo molti soldi. Ma volevo vivere in un posto che mi somigliasse. E per permettermelo, doveva essere un rudere.”

Ci mise sette anni a ristrutturarla. La burocrazia fu peggio di tutto il lavoro manuale che richiese la ristrutturazione. I permessi vennero negati due volte. Alla fine, dovette fare ricorso al governo. E vinse.

Oggi quella torre è la sua casa e uno dei progetti di recupero più particolari dell’architettura residenziale britannica.

“È come viaggiare: serve pazienza, visione e una certa dose di testardaggine.”

La riscoperta

Per trent’anni, la storia di Elspeth rimase sconosciuta, tranne che a chi la incontrava per caso. Fino a quando, nel 2008, un amico raccontò a un giornalista legato a BMW di conoscere una donna che negli anni ’80 aveva fatto il giro del mondo in moto.

Le chiesero un breve testo e qualche foto per il sito ufficiale. Lei spedì il materiale senza aspettarsi nulla. E invece successe. Il racconto diventò virale, rimbalzò da un blog all’altro, da un forum all’altro. I giornalisti iniziarono a cercarla. Qualcuno da Hollywood le propose di farne un film.

“Io volevo solo raccontare la verità, senza esagerare. Ma una volta partito, il treno non si è più fermato.”

Scrisse un libro, Lone Rider, oggi tradotto anche in italiano. La sua storia è diventata un simbolo — e lei un’icona.

Una voce diversa

Oggi Elspeth tiene conferenze, partecipa a raduni, parla con studenti e appassionati. Ma lo fa con discrezione. Nessuna posa da personaggio, nessun atteggiamento da leggenda.

“Non ho fatto nulla per diventare famosa. Ho fatto quello che sentivo di dover fare. Il resto è venuto dopo, e va bene così.”

Non rimpiange la mancanza di tecnologia. Anzi. A chi le chiede se avrebbe voluto un telefono satellitare o i social, risponde sempre nello stesso modo:

“Se avessi potuto chiedere aiuto ogni volta, non avrei imparato niente.”

Libertà senza testimoni

Il coraggio, in fondo, non è fare qualcosa di grande. È fare qualcosa di necessario, anche se nessuno applaude. E forse il più grande insegnamento che viene fuori dalla storia di Elspeth Beard è proprio questo: che la libertà non ha bisogno di testimoni per essere vera.

Il libro di Elspeth Beard ‘Sola, in moto’, edito da La Mala Suerte Ediciones, è disponibile per l’acquisto a questo link.

Elspeth Beard a L’Iconica. Aprile 2025.

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