UNA DECISIONE MATURATA LENTAMENTE
Caccia? No grazie. Ho sempre risposto così a chi mi domandasse se io, che in montagna vado parecchio, mi fossi mai interessato alla cosiddetta attività venatoria.
La mia visione della caccia era di un qualcosa a parte rispetto alle questioni ambientali di cui mi interesso da anni e il mio atteggiamento verso di essa era perlopiù di neutralità e distacco. Per dire, quando incontravo un cacciatore nei boschi, lo salutavo come faccio con qualunque altro escursionista. A ognuno le sue passioni, ho sempre pensato. Gli invidiavo i cani, quello sì, belli, sporchi e… utili a qualcosa a differenza del mio che vegetava tra il giardino e la cuccia.
Dunque, a differenza della quasi totalità dei cacciatori, non ho mai ricevuto un’educazione alla caccia e non porto l’eredità di una famiglia in cui si tramanda questa tradizione. E, per ora, non posso neppure definirmi un cacciatore dal momento che al di là di zanzare, cimici e dello scorpione occasionale non ho mai deliberatamente tolto la vita a un animale. La settimana scorsa, però, ho sostenuto con esito positivo l’esame per l’abilitazione all’attività venatoria, compresa l’ “integrazione per la Zona Alpi” riservata a chi decida di rendere la caccia la prima tra le sue passioni e che abbia – diciamolo pure – un po’ di voglia di studiare. La decisione di prendere la “licenza” è maturata lentamente a seguito di riflessioni su testi di filosofi trascendentalisti e degli autori più vicini ai temi del cambiamento climatico, della sostenibilità ambientale e dell’economica circolare, oltre che come complemento della mia passione per le attività svolte in ambiente naturale e per le iniziative finalizzate alla conservazione della biodiversità. Cercherò di scendere nel dettaglio di che cosa per me rappresenti la caccia nei paragrafi successivi, senza l’ambizione di giungere a una conclusione logica e plausibile. Inoltre, so bene che tra gli stessi cacciatori c’è ancora chi non osserva le regole, chi spesso o alcune volte si comporta da “bracconiere con la licenza”. Nei confronti di costoro non posso esprimere che biasimo augurandomi che la vigilanza venatoria diventi sempre più severa e l’accesso all’attività sempre più selettivo.
UN ATTO D’AMORE VERSO ME STESSO. E VERSO LA NATURA
Grazie a mia moglie, scienziata e cuoca provetta, la mia gestione del tempo libero fatta di serate con gli amici e di sport vissuto più come ossessione che come parte di uno stile di vita sano, si è orientata negli ultimi dieci anni a una maggiore consapevolezza su tutte quelle pratiche quotidiane che ci rendono più forti, più performanti, più longevi, siano esse legate all’attività fisica, all’alimentazione, alla dimensione mentale. Ecco che, nel decidere delle modifiche alla mia quotidianità, ho cominciato a eliminare alcuni alimenti, primo tra tutti la carne di allevamento. È difficile negare che la caccia praticata in modo sostenibile sia decisamente meno nociva per l’ambiente rispetto agli allevamenti intensivi e non perpetui una “catena del valore” di animali sofferenti e malnutriti, di processi produttivi focolaio di malattie, di assurdi trasporti via terra, acqua e aria (avevo già posto la questione in questo mio precedente articolo). Ecco che un atto d’amore verso sé stessi può generare una maggiore attenzione verso l’ambiente naturale e gli esseri viventi che lo popolano. Vorrei smarcare un altro punto, ovvero l’osservazione “ma se ami tanto la natura e gli animali, perché non sei vegano?”. Ho provato a essere vegano piuttosto a lungo, con una selezione certosina delle materie prime e il rispetto di un regime di pasti ordinato e bilanciato. La verità è che dopo qualche settimana ero diventato sensibile al freddo, non riuscivo più a dormire bene, erano comparsi dolori articolari e il mio umore stava scivolando in un baratro. Ho i miei dubbi che una dieta 100% plant based sia la soluzione ideale per la nostra specie ma se alcuni si trovano bene, meglio così. Per me non ha funzionato.
Non vorrei neanche dare l’impressione di essere un carnivoro a ogni costo, o a ogni pasto. La mia alimentazione è vegetale in larghissima parte ma una o due volte alla settimana introduco la carne e il pesce, selezionando accuratamente i fornitori e rivolgendomi ai piccoli allevatori o ai negozi biologici. Lo stesso vale per il latte e i formaggi che consumo – limitando le quantità – almeno tre o quattro volte alla settimana. I vegetali e la frutta li prendo invece dall’orto di famiglia dove non sono mai stati utilizzati pesticidi o anticrittogamici. Nel mio caso il legame con la natura è già forte e l’esigenza di cacciare nasce dalla volontà di procacciarmi carni di selvaggina cresciuta allo stato brado: alimenti con proprietà chimiche, fisiche e organolettiche del tutto differenti dai cibi industriali consumati quotidianamente da troppe persone e che alimentano costantemente il distacco tra l’uomo e l’ambiente naturale.
Ritornando a parlare di amore verso sé stessi e verso la natura, ecco che colui che si dedica alla caccia in modo consapevole deve affrontare una dicotomia fortissima:
Eppure, i cacciatori, soprattutto coloro che praticano la caccia di selezione in montagna, un tipo di attività venatoria orientato al miglioramento qualitativo e quantitativo di una specie, conoscono meglio di chiunque altro quella determinata specie. Ne conoscono le caratteristiche fisiche, biologiche e comportamentali. Sono esperti dell’ambiente in cui vive e delle sue strutture sociali e spesso, all’interno della riserva di appartenenza, conoscono un gruppo di animali capo per capo, aspettando il momento più opportuno per prelevare l’esemplare che si osserva da anni.
La caccia porta a una comprensione straordinaria del mondo naturale e a una connessione fortissima, quasi viscerale, con esso. Il cacciatore consapevole sa molto di più di montagna, di piante, di geologia e di fauna di colui che si limita a passeggiare per boschi e per pendii incosciente, ad esempio, che il calpestio degli scarponi o degli sci d’alpinismo potrebbe essere fatale per il gallo cedrone o per la coturnice che si nasconde tra i mughi o dietro le rocce. Mi permetto di scriverlo più da scialpinista che da cacciatore ma ne sono consapevole grazie allo studio della caccia.
La caccia ispira un senso di appartenenza autentica e reciproca verso l’ambiente naturale e la volontà di darsi da fare per la conservazione degli habitat, degli ecosistemi, della biodiversità. La differenza con coloro che, risucchiati dal vertice della civilizzazione selvaggia e del cemento-come-normalità, godono della natura come di un mero luogo di svago e ricreazione, è evidente e profonda. Vale la pena ricordare che, da che si ha notizia della presenza dell’uomo sulla Terra – circa 75.000 anni – la pratica della caccia si è sempre svolta ma è fortemente rallentata negli ultimi duecento anni, per poi subire un’ulteriore, forte battuta d’arresto dopo gli anni ’50 del secolo scorso a seguito dell’introduzione degli allevamenti intensivi e delle colture meccanizzate: pratiche industriali basate sull’utilizzo sproporzionato delle risorse naturali e al servizio della civilizzazione che – inutile approfondire in questa sede, chi vorrà potrà farlo con una veloce ricerca – stanno depredando il pianeta di acqua e di altre risorse fondamentali alla vita su di esso, stanno cancellando la biodiversità e distruggendo aree strategiche per la rigenerazione degli organismi viventi, basti osservare la tragedia della Foresta Amazzonica.
ATTO DI VIOLENZA O PRATICA MEDITATIVA
Si può pensare che il cacciatore vada per boschi animato da un desiderio di violenza e da un istinto sanguinario. Spero che a questo punto del mio scritto sia chiaro che le necessità sono altre. Nel mio caso – e non sono certamente l’unico – i momenti che più temo sono quello dello sparo e quello in cui dovrò affrontare la carcassa di un animale abbattuto.
La caccia consapevole è in realtà un’attività profondamente meditativa: i censimenti specie per specie – opportuni a valutare se un esemplare risulti cacciabile o se sia opportuno vietarne il prelievo a causa di una bassa densità – i sopralluoghi a seguito di eventi metereologici, le uscite in cui gli animali non si fanno trovare o in cui non è opportuno sparare perché troppo distanti o in posizioni che ostacolano la traiettoria del colpo sono tutte situazioni che possono apparire come una perdita di tempo agli occhi dei più, di coloro che “vado al supermercato e in dieci minuti ho risolto”. Queste attività ristabiliscono però un contatto fortissimo e ancestrale con la natura e con le sue regole, con il pericolo insito nel vagare in zone non battute, con l’incertezza legata agli eventi metereologici e al comportamento delle specie selvatiche.
Non è una cosa di poco conto uccidere un animale: i selvatici sono esseri senzienti, morali, spesso parte di una struttura sociale. Per questo non si può sparare senza avere prima verificato nel dettaglio ciò che si sta per fare e – nel caso della caccia di selezione – sono gli accompagnatori ad autorizzare il colpo: ciascun abbattimento è dunque il frutto di un ragionamento condiviso tra più persone. Inoltre, bisogna sparare bene e l’esercizio al tiro a segno in poligono diventa fondamentale. Se si uccide un animale non si torna più indietro, se lo si ferisce senza ucciderlo si è fatto un danno grave, il più delle volte irreversibile anch’esso.
La caccia è una pratica violenta ma non è forse la violenza a permeare la natura, gli ecosistemi, le relazioni tra gli esseri viventi? Se si pensa di non avere responsabilità e di esistere al di fuori della “spirale della violenza” perché ci si serve al supermercato o al ristorante, si compie o un grave errore di valutazione, o un profondo atto di ipocrisia.
SOLO APPROFONDENDO SI PUÒ CRITICARE
Non ho argomentazioni contro le critiche da parte dei vegani, se non quelle – ontologicamente opinabili perché frutto di un ragionamento basato sull’antropocentrismo – del controllo del territorio e della gestione dei boschi e delle colture, e della sicurezza sulle strade. Sono però profondamente convinto che tutti coloro che sostengono che “la caccia sia male” e che consumano carne di allevamento dovrebbero rimettere in discussione la propria capacità di distinguere il bene dal male.
Attenzione dunque ai pregiudizi ideologici ed emozionali, purtroppo fomentati dall’incapacità dei cacciatori di farsi una pubblicità positiva.
Non si sente mai dire che il cacciatore consapevole non vuole depredare i territori in cui pratica la sua attività ma nutre invece un sentimento d’amore per quegli stessi luoghi, una passione che si concretizza nel dedicarsi costantemente alla conservazione degli habitat affinché le varie specie, cacciabili e non, possano continuare a prosperare su di essi. Pochi sanno che gran parte della fauna cacciabile esiste perché viene reimmessa in natura dagli stessi cacciatori che la allevano allo stato naturale nei Centri di Riproduzione della Selvaggina. Alcuni obietteranno: anche questo è artificioso, è innaturale, è una forma di antropizzazione. Invito però i sostenitori di questa tesi a ragionare sul fatto che se quest’attività non fosse svolta da nessuno, sparirebbero i fagiani, le lepri, le starne e molte altre specie stanziali. Molte specie migratorie modificherebbero le proprie rotte. Ciò che fanno i cacciatori, attraverso i loro organismi e la collaborazione con gli agricoltori, con i conservazionisti, con la pubblica amministrazione, è lavorare affinché gli animali selvatici coesistano con la civiltà, restando presenti pressoché ovunque sul nostro territorio e mantenendo le caratteristiche che consentono loro di vivere e di prosperare allo stato naturale. È un compito difficile, in cui sono coinvolti privati cittadini, aziende, organismi locali (le province e le associazioni) e organi dello Stato. Peccato che in pochi lo sappiano e che la stragrande maggioranza delle persone continui a ritenere la caccia una becera attività di predazione.
ESPERIENZA NULLA E OBIETTIVI AMBIZIOSI
Come scrivevo qualche riga più in su, la settimana scorsa ho sostenuto l’esame per la licenza di caccia con esito positivo. Dopo 45 domande scritte e quasi un’ora di interrogazione, mi sento di dire che la licenza di caccia “base” (o per la cosiddetta “zona bassa”) è probabilmente alla portata di tutti con qualche settimana di studio. L’integrazione per la “Zona Alpi”, vale a dire per le aree di montagna dove la fauna caratteristica è presente con densità alle volte limitata, richiede invece di approfondire con metodo e precisione la biologia delle varie specie e il corretto utilizzo delle armi e delle munizioni, con particolare riferimento alla carabina con ottica di mira, disciplinato dettagliatamente dalla legge.
Il risultato del percorso di studio è una cultura probabilmente superiore a quella del 90% delle persone in termini di gestione dell’ambiente naturale e di conoscenza della fauna selvatica, compreso il riconoscimento delle specie, del sesso, delle classi d’età (spero di non essere tacciato d’immodestia: il “campione” preso come termine di paragone è il me stesso dello scorso gennaio alla prima lezione di caccia) ma rappresenta lo 0,09% – forse meno – di tutto ciò che ci sarebbe da sapere per potersi definire un bravo cacciatore.
L’ambizione personale è quella di proseguire costantemente negli studi e nella frequentazione dell’ambiente naturale per arrivare a un dieci, magari a un quindici per cento del livello di conoscenza ideale. È una missione etica per la quale conto sulla mia innata curiosità e su una forte motivazione.
L’obiettivo per quanto riguarda la collettività è che i cacciatori, gli agricoltori e i conservazionisti possano lavorare insieme in modo sempre più proficuo e che le tre categorie siano presto considerate tutte fondamentali per il contributo unico e indispensabile che ciascuna di loro può apportare per la conservazione della biodiversità e il miglioramento degli habitat.
Pier Francesco Verlato
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